Sabato 23 marzo 1985. Peppino Papaleo, lo ricordo come se fosse oggi mentre mi porge in silenzio alcuni fogli freschi di tipografia. Lui non parlava molto. Gli piaceva ascoltare e scrivere sul “suo giornale” indipendente: un foglio stampato avanti/retro: “L’Opinione”, voce fuori dal coro e, nel modo di condurre certe tematiche, anche “rivoluzionario”. Con orgoglio e passione scriveva di politica e cultura sempre attento al territorio e agli eventi potenzialmente vocati alla crescita della collettività.
Ci eravamo visti qualche giorno prima dopo un lungo intervallo, in quel periodo ci si incontrava spesso sul corso Mazzini nei pressi della “Mattia Preti” o del “pozzo” gallerie storiche della città ma anche della sala mostre della Provincia in piazza prefettura o, come si preferisce, dell’Immacolata, unica realtà espositiva destinata senza scopo di lucro agli artisti che intendevano esporre i propri lavori e mi chiese cosa stessi facendo. Lo informai della mia mostra a Bologna nel centro d’arte studio 5.
Entrammo nel negozio “Stefania”
difronte la farmacia “Leone”. Ci accolse una bella e dolce signora dai modi
gentili, gli occhi chiari e i capelli castani vaporosi.
Peppino mi disse: se vuoi, se ti va porta una tela che la
mettiamo in vetrina. Gliela portai con piacere dopo qualche giorno e gliene feci
dono, grato per la sua perspicace figura di intellettuale ante litteram e uomo coraggioso.
Ciao Peppino, ovunque tu sia ti vedo ancora, non più
corrucciato e critico, a volte incazzato nei confronti di una società accattona
priva di carattere che pur di evitare lo scontro dialettico ripeteva e ripete ancora:
“dicci ca sì, sempa ca sì e fhuttatinda”.
Ti vedo sorridente, quasi incuriosito guardare dall’alto la
gente che passa e la perfori. La scruti e leggi nell’intimo dell’animo i pensieri
reconditi mal celati allo sguardo dell’acuto osservatore dei costumi sociali
quale sei.
Sei lì, in quel tratto di passeggiata di pochi metri che va
dalla prefettura al corso; ti soffermi nei pressi del bar “Colacino” e difficilmente ti addentri nella “scinduta de’ fhissi”
( così era denominata la discesina di S. Caterina, quindi piazza Roma che, fatti pochi passi, apre alla fermata
della tramvia). Tu sei lì, con quel tuo inseparabile borsello.
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