La religione dice che siamo tutti fratelli e che le malefatte degli uni sugli altri, prima o poi saranno addebitate e pagate. Ci dice pure che siamo fatti a immagine di Dio e che non esistono, nell'immensa Bontà del Creatore, classi, caste, ceti, subalterni o dominanti. E neanche singole entità superiori ad altre e che i titoli inventati dagli uomini non valgono nulla al Suo Cospetto.
Va bene! Diamo per scontato tutte queste belle indicazioni Divine, però qualcuno deve spiegare perché sono sempre i più arroganti a gestire il "potere temporale", i più scaltri, quelli che predicano bene e razzolano male. Che promettono benessere e solidarietà; comprano i bisognosi per un tozzo di pane piuttosto che sfamarli amorevolmente; che approfittano dell'ignoranza delle masse.
A proposito di masse accomunate da ideologie sane, ma anche nelle comunità morigerate un tempo per focalizzare le persone, i termini erano "Ciccio, l'artigiano; Totò u scarparu; u figghiu do cutureri, il barbiere, e via citando". Il titolo distintivo consisteva nel mestiere dei padri o della famiglia in senso lato e serviva esclusivamente per chiarire subito di chi si parlava.
I nobili e i dotti facevano testo a sé e pretendevano ossequiosa referenza: l'onorevole; il barone; il dottore; don Giovanni…
A un certo punto della storia, l'evoluzione culturale e sociale sancisce l'uguaglianza e l'abolizione delle caste, nonostante ciò i titoli si sprecano e continuano a essere anteposti ai nomi persino sui manifesti dell'estremo saluto.
Ma non si era detto che siamo tutti uguali? O forse anche lassù varrà qualcosa la presentazione anticipata dai titoli; il curriculum vitae, suffragato dagli epitaffi dei congiunti rimasti a indossare maschere terrene, condizioneranno S. Pietro?
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