Festival della canzone italiana e dei costumi italiani; Sanremo, anche questa sessantesima edizione non poteva smentire la bagarre massmediatica che s’imbastisce attorno a quella che, di diritto, dovrebbe essere la regina del teatro Ariston: la musica e la canzone italiana.
Nella ancor calda kermesse, stentano a stemperarsi gli umori di quanti non accettano l’ennesima imposizione dei burattinai che gestiscono il potere. Anche qui si è vista chiaramente la volontà di imporre scelte che nulla hanno a che vedere con la creatività musicale. Canzoni e testi costruiti per personaggi che farebbero bene a trovare strade più consone al “rango”. Televoto ambiguo. Artisti in erba costruiti in laboratorio e conduzione falsamente familiare alimentano i cori del dissenso attuale.
Persino i musicisti contestano la finale e lanciano gli spartiti per terra mentre il pubblico fischia un ragazzetto stonato, impacciato nei movimenti ma non nel rispondere ai dissenzienti. Di contro, i cantanti bravi che lo supportano, subiscono anche loro gl’impietosi epiteti del pubblico offeso nell’intelligenza e nei gusti.
Alla bocciatura, quasi tutti i ragazzi, oggi non rispondono con un maggior impegno ma con l’arroganza tipica dei tempi in cui gl’inquisiti mantengono le poltrone dello Stato. Non tornano a lavorare in fucina ma restano saldamente ancorati ai posti privilegiati. Qualcuno ha anche commentato: “ma poverino che male fa se vuole fare un lavoro che gli piace?”; anche le migliaia di persone che stanno lottando per mantenerlo alla Fiat, all’Alcoa, nelle scuole, nelle università, nei call center di Phonemedia vorrebbero poter avere la dignità di un banalissimo posto di lavoro…
D'altronde, se la balia del xx secolo educa le nuove generazioni alla frivolezza e alla spettacolarità; all’appariscenza; al raggiungimento del benessere personale a tutti i costi; all’arrivismo impietoso e arrogante, è naturale che una volta adulti vedano i rapporti del mondo sociale con gli occhi disincantanti degli affari.
Sanremo è un colossale affare. Un affare completamente economico, in cui i veri artisti emergenti non trovano spazi per proporre le proprie creazioni, mentre quelli già affermati rifiutano l’invito per non alimentare un baraccone depresso dall’avidità e dall’ambiguità che lo sorregge.