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mercoledì 31 marzo 2021

Antichi mestieri: fornai e pasticceri

Sembra ieri.



Sembra ieri eppure sono trascorsi 40 anni da quando ci siamo insediati nelle campagne del corvo.

All'inizio poche cooperative, pochissime casette rurali in cui facevano la loro vita, una dura vita, vecchi contadini che coltivavano i campi e curavano gli uliveti.

Non c'era granché! Ma c'era tantissimo entusiasmo da parte nostra. C'era una piccola bottega; un negozio di generi alimentari che vendeva ottimi affettati e la mortadella emanava un odore invitante specie se messa tra due fette calde di buon pane appena sfornato.

Tra gli ulivi, con le pareti ancora fresche di cemento, un forno condotto da un giovane fornaio e da sua moglie. E due bambini: Cesare e Mariangelo che tutt'ora portano avanti il tradizionale quanto prezioso mestiere dei panificatori.

Due ragazzi solari! Che, col piglio dei giovani e le dovute impostazioni creative inerenti l'imprenditoria di successo, sempre col sorriso e la battuta pronta, servono la città coadiuvati dalle gentili commesse.

Ad maiora semper agli artisti del pane! e a quanti continuano, nonostante gli ostacoli del momento, a fornire generi di prima necessità e non solo.

sabato 27 marzo 2021

Vita all'aria aperta, vita in campagna

C'era una volta.



C'era una volta. Iniziano sempre così le favole per bambini. Oggi però voglio raccontarvi una storia contemporanea, anzi più che una storia una realtà, un modello di vita che si vive nelle campagne calabresi e non solo calabresi.

Insomma uno spaccato di vita che la sorte regala ancora a pochi fortunati e sono altrettanto poche le persone che l'apprezzano per quel ch'è: una fortuna! Specialmente nell'era del virus che costringe in casa gli abitanti delle città e dei paesi.

Lontano dalle ansie e dall'inquinamento cittadino. Tra il silenzio interrotto dai cinguettii e dal vento che trasporta odori della natura. Il gorgoglio dell'acqua cristallina è una nenia che muta quando incontra e accarezza gli ostacoli. L'alveo del fiume in questo periodo è quasi asciutto. Ma, nonostante l'acqua bassa a ogni passo gli zoccoli dell'asino s'inabissano. L'uomo che cammina al suo fianco ha stivali alti fino al ginocchio e non alza completamente i piedi. Il suo passo è lento, forse accarezza il fondale con le grosse suole per evitare rovinosi inciampi.

E, in una delle ceste legate sui fianchi del somaro, un bimbo, o forse una bimba?, non so, dal bel visino sfoggia un sorriso da fare invidia. Lunghi riccioli biondi incorniciano il viso. E anche se cadono davanti agli occhi non molla la presa. È eccitato, visibilmente felice per quella passeggiata; altro che giro alle giostre. Le sue manine serrano il bordo della cesta che si muove al ritmo del ciuco.

E mentre noi siamo costretti, diseducati, prigionieri delle comodità, o attratti dalla moda del momento dal suv per viaggiare in città e, mai per esplorare la natura il suo fuoristrada ha un cuore che batte al ritmo della vita e lo trasporta nel tour più accattivante: da casa ai campi e viceversa finché il sole splende.

domenica 5 aprile 2020

Una storia d'altri tempi

Il rito del pane nella famiglia calabrese.

Il forno a legna era ubicato in soffitta e affianco c’ere la bocca enorme del camino. La casa era strutturata a mo’ di torre. Gli ambienti, disposti in verticale, richiedevano una manutenzione abbastanza faticosa.
Come si può intuire il trasporto della legna fino in soffitta non era uno scherzo anche se il nonno, uomo ingegnoso e creativo, si era costruito una carrucola con una vecchia ruota di trebbiatrice. Aveva conficcato un gancio robusto nella trave della capriata e la grossa corda penzolava giù nella botola fino a terra, nel seminterrato dove era ricoverata la mula e, ovviamente, si depositava la legna.


Fare il pane era una cerimonia dal profumo avvolgente.
La nonna, mamma e mia sorella iniziavano a preparare l’ambiente e le vettovaglie necessarie dalla sera.
Subito dopo cena, sistemata la cucina e messo a letto i piccoli, le donne di casa posizionavano la madia su dei trespoli bassi quanto bastava per impastare la farina con naturalezza.

Le notti d’inverno era piacevole stare a guardare accarezzati dal tepore del forno e dalle parole delle donne indaffarate nella preparazione del pane. C’era serenità. Spensieratezza. Nonostante la fatica e la vita spartana nei campi.

Nonna e mamma posizionavano il sacco della farina nei pressi della madia. La versavano e, particata una fossa al centro, aggiungevano acqua, sale e il lievito madre. Iniziavano a impastare dai bordi. Tiravano giù la farina. La facevano cadere nella pozza d’acqua e le mani iniziavano a scomparire tra la poltiglia bianca.
Quando l’impasto iniziava ad essere consistente e non si attaccava alle mani iniziava una sorta di lotta. Le donne torcevano, piegavano, piggiavano coi pugni chiusi l’impasto e quando ritenevano di avere raggiunto la giusta consistenza smettevano di lottare. Coprivano il tutto con una tovaglia di cotone e delle coperte.
Nel frattempo la legna bruciava allegra nel forno. C’era da attendere un paio d’ore prima di poterlo dividere in pani e infornare. La lievitazione richiedeva dei tempi d’attesa. E nel frattempo si raccontavano storie e fatti accaduti. Si parlave del raccolto e delle nascite. Di matrimoni e partenze. E di morti.

Poi, misurando visivamente il volume delle coperte e la quantità della legna consumata, la nonna indicava il da farsi. Tere’ prendi la scodella per la comare Vincenza che le diamo “u levatu” (il lievito madre) che deve panificare domani. Quindi tolto il lievito madre per la prossima panificazione e la comare si iniziava a fare i pani. Il compito di mia sorella era di sistemarli sul tavolo e coprirli con delle tovaglie di cotone. Alla fine, messe su delle altre coperte di lana, si riattizzava il fuoco nel forno e si andava a letto per qualche ora. L’impasto doveva fare la seconda lievitazione.
Intorno alle tre di notte iniziava l’infornata. La nonna toglieva il tampone dalla bocca del forno. Spostava verso l’esterno la brace. Puliva la base dalla cenere e vi depositava le pagnotte. Un’ora! Al massimo un’ora e mezza. E poi il profumo del pane appena cotto inondava la casa.
Avete mai provato a tagliare il pane appena sfornato e metterci dentro un cucchiaio di cicoli? Oppure del prosciutto crudo? Ma non il prosciutto crudo sottile commerciale. Parlo del prosciutto casareccio tagliato col coltello, spesso e col grasso.


lunedì 11 novembre 2019

Le scarpe nuove

Sì, devo rivedere alcune abitudini. Anche perché non siamo più negli anni 60 quando le madri raccomandavano di tenere cura ai vestiti e alle scarpe della festa.
Una volta le madri e anche la mia quando indossavo le scarpe nuove e uscivo per incontrare gli amici mi gridava dietro: “…mi raccomando non giocare a pallone! Queste sono le scarpe della domenica!!!”.
Sì, non c’era molto da cambiare e scambiare. Il vestito buono e le scarpe lucide s’indossavano esclusivamente la domenica per andare a messa o a trovare i nonni e nelle feste raccomandate. Per gli esami e poche altre grandi occasioni dov’era necessario fare una buona impressione. “Vestiti zuccuna ca pari baruna” era una frase che si sentiva spesso allorché facevamo resistenza perché le scarpe vecchie erano più comode e ci sentivamo a nostro agio con i jeans.
E guai se c’era qualche strappo o qualche toppa! Sia mai! Dicevano con sdegno le buone madri di famiglia, quando ci passavano in rassegna. Peggio che in caserma! Scrima diritta; piega perfetta; colletto bianco; scarpe lucide e ben annodate; unghie corte e pulite…

È anche vero, però, che un tempo le scarpe ed i vestiti erano fatti per durare. Quindi materiale di prima qualità: pellame ben conciato per le scarpe e tessuti d’origine naturale quali la lana e il cotone per cucire dal sarto i vestiti delle grandi occasioni. Infatti duravano per molto tempo e passavano in dote dal fratello grande al piccolo.
Adesso tra il consumismo sfrenato e la qualità che scarseggia, piccole e grandi marche e la distribuzione hanno escogitato e coniato un altro modo per tenere vivo l’interesse massivo dei potenziali acquirenti così da fare girare i soldi nel commercio della roba d’uso quotidiano: “la resilienza programmata”!

Ma torniamo al concetto principale. Cioè al fatto di riconsiderare l’utilizzo delle scarpe “buone” e dei vestiti eleganti:

Avevo comprato delle belle scarpe. Un paio di scarpe comode nonostante fossero nuove. Ottimo! Mi dissi. Le terrò da parte per le occasioni importanti.
Infatti le usai pochissimo. E l’ultima volta che le indossai le suole si sbriciolarono: disintegrate peggio delle buste di plastiche che si sciolgono nel giro di poco tempo.

giovedì 4 luglio 2019

Sere d'estate

Nelle giornate assolate le donne preferivano stare sedute sull'uscio di casa, al fresco, sotto i portici che adornavano le entrate della maggior parte delle abitazioni, e chiacchierare. La più anziana, ritenuta la saggia del paese, donna Peppina, questo il suo nome aveva il dono di sapere ascoltare. E quando era richiesta espressamente la sua visione delle cose parlava. Si esprimeva alla maniera del paese. Accompagnava alle parole i gesti usando metafore comuni comprensibili a chiunque.

Donna Peppina sapeva decifrare anche i sogni oltre ai segni della natura. Sapeva anche togliere il malocchio. E questa è la preghiera che m'insegnò la notte del Santo Natale:

“Nostro Signore d'Eggittu venìa.
'na parma d'olivu a li mani portava;
a portava supra l'ataru pe' fara a Santa Benedizziona:

fhora malocchjiu da casa mia ...”.

Preghiera che, sapendo di non riuscire ad imparare a memoria in una notte così solenne, scrissi e ripetei fino a memorizzarla.
L'esorcismo contro la cattiveria e l'invidia non poteva e non può essere divulgato e appreso fuori dai tempi sacri che sono il SS Natale e la SS Pasqua. E non tutti possono esserne depositari.

A quel tempo ero piccola ma m'incuriosiva quell'andirivieni da casa di mia nonna. Le comari del paese entravano col solito cerimoniale e un pacco di zucchero o caffè in dono: “è permessu? Cummara Peppina vi disturbamu? No cummà chi diciti. Siti a patruna! Trasiti trasiti.”.
Guardavo e assistevo ai riti della saggezza popolare. E m'incantavo ai racconti dei sogni delle comari e alla loro decifrazione che la nonna faceva con saggia disinvoltura. Dava concreti suggerimenti agli accadimenti inusuali carichi di simboli profetici avvenuti durante il giorno durante il lavoro nei campi e rincuorava le comari. Le rasserenava. Ma dava anche consigli comportamentali e buone maniere.

lunedì 18 aprile 2016

Saperi antichi e vecchi mestieri

Prima dell'era della plastica i recipienti d'uso comune erano costruiti in argilla, latta, ferro, rame e vimini intrecciati.
Le botteghe artigiane avevano il tipico odore dei manufatti che prendevano forma sotto le mani sapienti dei “mastri”. I maestri rendevano viva la materia, la plasmavano fino a tirare fuori l'oggetto per la casa mentre i discepoli badavano al fuoco della fornace o stavano accanto per passare loro gli attrezzi necessari e il materiale.

antichi mestieri

domenica 28 febbraio 2016

Quindici anni

Dietro l'Immacolata.


La chiesa dell'Immacolata, legata al culto della Vergine Maria, patrona di Catanzaro, è un luogo caro ai catanzaresi tant'è che la piazza dove sorge il palazzo della prefettura (piazza prefettura, o piazza Rossi, appunto) è più nota come piazza dell'Immacolata.
Catanzaro, via G, Veraldi

Un tempo la vita sociale e culturale della città si condensava lì, in piazza Immacolata. C'era l'ufficio postale, l'istituto Galluppi, il teatro Comunale e il caffè all'aperto di Colacino che chiudeva la piazza con lo storico “stretto” prima di sfociare nel corso Mazzini dove i catanzaresi facevano la passeggiata e curisavano nelle vetrine dei negozi posti ai lati della strada.

Dietro l'Immacolata, leggermente decentrata c'era la piazzetta Serravalle e, proprio dietro le spalle della cattedrale, c'era, il portone del conventino dei frati che reggevano la chiesa.
Sono trascorsi tantissimi anni da quando le mie passeggiate mi portavano a passare da lì in compagnia dei miei amici.

sabato 23 gennaio 2016

Noi che costruivamo le maschere con la carta

(l'apriscatole culturale)


Nel giro di qualche decennio siamo passati dal produrre poco e, tutto sommato, in sintonia con gli eco sistemi al produrre indiscriminatamente moltissimo inquinando il suolo terrestre e l'atmosfera.

Persino il barbiere riciclava le schedine del totocalcio vecchie. Le metteva sulla mensola davanti alla poltrona e quando doveva pulire il rasoio vi spalmava sopra la schiuma da barba appena tolta dal viso del cliente. E che dire del fruttivendolo o del pescivendolo che incartavano la mercanzia nei giornali dei giorni precedenti?
"maschere di carta"

Poi vennero gli anni di plastica e le industrie iniziarono a stampare persino i recipienti destinati a contenere gli alimenti e gli artisti fecero assurgere gli oggetti ad opere d'arte.

Eppure, come era bella la semplice quotidianità dei primi anni sessanta quando ancora sapevamo costruire i giochi e ci impegnavamo creativamente nell'assemblare i vestiti e le maschere per carnevale con i pochi mezzi che avevamo a disposizione.
Le maschere prendevano forma gradatamente da scatole di scarpe e da semplici fogli di giornali e dalle pagine dei quaderni.

Le maschere avevano forme diverse, spesso condizionate dalla disponibilità dei fogli di carta che si possedevano.
Il simbolo dell'infinito tracciato su due facce di foglio di quaderno si trasformava nella maschera di zorro e un ramo reciso opportunamente trattato diventava una spada.

Il carnevale e le altre festività erano una corsa felice verso la creatività affiancata e stimolata dai genitori e dai fratelli più grandi. E oggi?

martedì 28 aprile 2015

Bastava poco per essere felici

Dal cucuzzaro al giudice: così giocavamo 


Chi ha più di cinquant'anni ricorderà senz'altro i passatempi di una volta quando per divertirsi in compagnia bastavano le parole per coinvolgere e allietare i presenti, magari aiutandosi con oggetti improvvisati.

Ricordate il gioco del “cucuzzaro”?
C'era uno della compagnia, solitamente il più grande d'età che assegnava i numeri ai presenti. Dalla cucuzza numero uno fino ad arrivare alla totalità dei giocatori. Fatto questo iniziava la cantilena: “ieri sera sono andato nel mio orto e ho contato cinque cucuzze. Cinque? Rispondeva il giocatore che aveva associato il numero 5. No erano tre! Perché tre? Interveniva il tre chiamando in gioco un altro dei presenti. Erano sette! Perché 7? era tutto il cucuzzaro!” e così via fino a quando qualcuno sbagliava e doveva pagare pegno o ci si stancava e si passava al gioco successivo oppure si scioglieva la compagnia e si tornava a casa.

C'erano, però, anche giochi da veri maschiacci come la cavallina o la morra dove chi perdeva doveva pagare pegno e subire dei colpi violenti, inferti, con un fazzoletto teso e annodato, sulle mani aperte. E poi c'era il gioco del “giudice”.
Antropologicamente, il gioco del “giudice” riportava agli albori della civiltà contadina per lo l'oggetto usato e per la fatalità assegnata all'azione stessa del gioco.

domenica 8 marzo 2015

Tradizioni valoriali tra crisi sociali e austerità

Avevate le scarpe!


Sì avevamo le scarpe, consumate … rotte, ormai. -risposi all'ospite che osservava incuriosito e commentava la foto sulla scrivania. Va be', stavate meglio di me e di tanti che non ce l'avevamo per niente. Ma eravate di lutto? Chi era morto? Mio padre. Risposi secco. E mi sovvenne alla mente Maria, la figlia di zia Rosina che faceva la sarta e insegnava a tagliare, cucire e risistemare gli abiti vecchi alle ragazze del paese. L'attività sartoriale e la propensione all'insegnamento che svolgeva al piano terra della casa le valse il titolo di “maistra”, maestra. Lei cuciva di sana pianta, risvoltava e aggiustava i vestiti ai paesani. E ovviamente anche a noi. Riusciva a dare nuova vita alle stoffe. Trasformava magistralmente cappotti, giacche, pantaloni, camicie e gonne.
Fu lei che cucì e riadattò i vestiti neri e i nastrini da tenere sui risvolti del bavero delle giacche per il tempo necessario alla celebrazione del lutto familiare.

mercoledì 9 aprile 2014

quando nelle case non c'era il wc

I due compari lavoravano alacremente. Si dovettero fermare e puntellare le pareti per evitare di essere sommersi prima di poter continuare a scavare.

La buca fognaria comunale era situata tra le vecchie case del borgo in una stradina stretta ma talmente stretta che consentiva alle comari di scambiare il lievito per fare il pane e altre cose utili dai balconi.

Gli uomini lavoravano in silenzio dall'alba. Ad un certo punto il più anziano si fermò. Passò il dorso della mano sulla fronte e guardandosi attorno valutò che potevano smettere di scavare. È profonda abbastanza! -disse-
Sì. -acconsentì l'altro- Possiamo posizionare le tubature e finalmente da oggi in poi la si fa da gran signori ah ahah ah... -concluse con una grassa risata-

All'epoca dei fatti i servizi igienici erano situati fuori dalle abitazioni, sul ballatoio o dietro la porta d'ingresso. Qualcuno, tra gli agiati, svuotava il pitale in un buco nel pavimento che sfiatava giù in cantina.

Un tempo, all'incirca fino negli anni cinquanta, quasi tutte le case dei borghi rurali erano provviste di “katojio”, una sorta di magazzino utile per albergare l'asino, accatastare la legna, il fieno e allocare la fossa biologica. E chi nn aveva lo scarico dei liquami interno, durante la notte, sovente svuotava il pitale dalla finestra.

L'acqua in casa era una chimera; un sogno avveniristico come il telefono senza fili fino a qualche decennio addietro. I bidoni o le taniche di plastica erano ancora sconosciuti e solo qualche secchio di latta, riempito alla fontana pubblica, fungeva da riserva per le abluzioni corporali.

E i rifiuti? I rifiuti non erano una emergenza ma una risorsa. Persino “a brodata” l'acqua scaldata per lavare piatti e pentole diventava alimento per maiali.

Meditiamo gente meditiamo.

lunedì 11 giugno 2012

Catanzaro, via del gelso bianco e filanda, origini

foglie e frutti di gelso bianco
C'è stato un tempo in cui la creatività dell'uomo riuscì a trarre ricchezze dalla trasformazione rispettosa della natura e intere città progredirono!

 Catanzaro porta ancora dietro le tracce storiche di queste opportunità ormai vive solo nei musei che conservano i damaschi e nella toponomastica cittadina del centro storico e precisamente nelle zone definite “gelso bianco” e “filanda”.

Gli orti i giardini e la campagna limitrofa all'area urbana, fino al secolo scorso, erano fonti di guadagno per i catanzaresi che, com'è noto, esportavano le sete damascate in Francia ed in tutta Europa.

Gli alberi di gelso producevano more con le quali le massaie confezionavano confetture ma non era questa la vera fonte di guadagno bensì l'ospite che si nutriva delle foglie dell'albero di gelso: il baco da seta!

I bossoli del baco da seta, opportunamente trattati, dipanati e trasformati in filati pregevoli, da via del gelso bianco si spostavano nel quartiere della “Filanda” dove le tessitrici compivano la magia della creazione col tessuto trattato e colorato dai tintori con accorgimenti che resero alla città vanto e onori, grazie, appunto al pregiato artigianato locale della tessitura.

lunedì 4 giugno 2012

c'era una volta in Calabria

Archeologia di un mondo che non c'è più

immagine tratta dal libro "I braccianti in Calabria" di Ledda e Veltri
"attimi di vita contadina"  foto Ledda/Veltri
"I braccianti in Calabria" 1983

Quando la terra si lavorava con la forza delle braccia e l'aratro era trainato dai buoi i contadini vivevano di stenti e di fatica. In quel tempo l'unico sostentamento proveniva dalla terra e dalle colture che il contadino riusciva a produrre. Perciò, il suo problema non era lo spread o la tassa sulla casa e neanche la macchina e i relativi giochetti strategici di Marchionne. Il contadino pregava la Divina Provvidenza, suo unico concessionario di fiducia, affinché facesse piovere nel momento giusto così da ottenere un buon raccolto e ché non si ammalassero gli armenti, l'asino, le capre, il maiale, le galline.

Il contadino si alzava al levar del sole e, bardato l'asino, si avviava a controllare il podere sulla soma del ciuco. Dava l'acqua alle colture attraverso una serie di ruscelli d'irrigazione che lui stesso scavava nel terreno e “stagghiava l'acqua” mandava l'acqua dove era necessaria, estirpava le erbacce infestanti e raccoglieva gli ortaggi e la frutta maturata dal sole.

L'acqua del fiume o della sorgente era di tutti e le regole di buon vicinato, affinché nessuno rimanesse senza, imponevano la turnazione programmata per le innaffiature dei poderi.
Ovviamente i terreni limitrofi ai pozzi d'acqua, alle fiumare o con sorgenti proprie erano le più ricche e ambite.

Gli utensili del mondo rurale erano pochi ma necessari: zappe, vanghe, tridenti, rastrelli, “chjiantaturi” punteruoli autoprodotti con dei rami e servivano per piantare le giovani piantine. Cesti, panieri e cannicci per raccogliere e contenere i frutti o essiccarli al sole.
E poi c'erano i cocci per mangiare o contenere le provviste in salamoia, sotto sale o ricoperti con la sugna di maiale che in dialetto calabrese si chiamano: salàturi, 'nsàlatera, pìgnata, vòzza.
La brocca, (a vòzza) è un recipiente di terracotta che un tempo conteneva l'acqua o il vino oggi è un souvenir.  

lunedì 28 dicembre 2009

festività, usi e costumi del s. natale


Non ci sono più le feste di una volta!

Dagli anni del boom economico a oggi, in quasi tutte le nazioni “ricche”, il benessere sociale ha indotto a modificare usi e costumi. Le tradizioni, inesistenti dal punto di vista antropologico anche nelle case meno abbienti, seguono le mode e si arricchiscono di teorie e prodotti hi-tech. È facile trovare sotto l’albero di natale, accanto ai pacchetti contenenti regali importanti per le signore, un cumulo cospicuo di prodotti effimeri, comunque costosi. Quest’anno, sembra che la recessione abbia fatto riscoprire la parsimonia agli italiani: regalini ridotti a pensierino, come per dire: ti voglio bene e sei sempre nei miei pensieri, per alcuni, ma anche regalone importante a chi ha fatto qualcosa di notevole o ché particolarmente caro/a.

Un tempo, e sì è proprio il caso di dire: non ci sono più le tradizioni di una volta; un tempo, dicevo, il S. Natale era ricco di significati religiosi, eticamente ineccepibili, condensati nella nascita di un Bambino che, con la sua venuta al mondo e il suo esempio avrebbe cambiato il modo di pensare degli uomini.

L’atmosfera natalizia infondeva sentimenti mirati al perdono solidale, al valore dell’uomo in quanto tale e non all’uomo schiavo di ideologie momentanee dettate dal leader fomentatore o dal mercanteggiare che induce a febbrili corse per negozi.
Poi, dopo le rigorose riunioni familiari, le tavole imbandite coperte da tovagliati bianchi inesorabilmente macchiate e ricoperte da bucce di mandarini e arance per la tombola, il 6 gennaio, la vecchina dal naso bitorzoluto parcheggiava la sua magica scopa sui tetti e lasciava cadere nelle calze appese ai camini i regalini ma anche il carbone per i bambini cattivi.
Quell’amabile vecchina non c’è più! È stata ricoverata in un ospizio oppure le è stata affiancata una badante che non conosce le tradizioni delle famiglie italiane. Peccato!

p.s: Ma, a ben pensarci, perché questo scambio parossistico di doni? Forse diventiamo più buoni, altruisti, ospitali come predicava Lui?
A che servono i regali, a esternare affetto o egocentrismo sfrenato?
Abbiamo unto di paganità un evento importante che ha il solo scopo di fare meditare tutti sul vero motivo della vita, religiosi e laici.
Con l’augurio di un’imminente rinascita intellettuale, annunciatrice di pace e serenità tra gli uomini, in Italia e nel mondo:
Buon 2010.

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