27 gennaio 2011, il Silenzio dei vivi in scena al Politeama di Catanzaro
Ho ricevuto un invito: ragazzi che conosco fin da quando erano bambini e che ho visto crescere si sono dati al teatro; hanno studiato diligentemente e ora sono riusciti a costituire un gruppo e lavorare insieme nonostante le difficoltà oggettive in cui versa lo spettacolo e la cultura in generale.
L’invito, dicevo, informa della messa in scena di un’opera teatrale tratta da un libro autobiografico di una signora ebrea che ha conosciuto le sofferenze della deportazione: Elisa Springer.
Secondo una nota della regia che ha rivisitato i testi "L'opera racconta con sentimento e trasporto, ma anche con un velo di ironia e comicità, l'oscura pagina della Shoah, dello sterminio degli ebrei, degli zingari, dei Testimoni di Geova, degli omosessuali e di altre minoranze durante la Seconda Guerra mondiale ad opera dei nazisti. 'Il silenzio dei vivi' racconta di milioni di uomini, donne e bambini senza distinzione di razza, sesso, religione o appartenenza politica, che sono passati per il 'camino' dei forni crematori. Uno spettacolo intenso che pratica non il rito del ricordo ma il culto della memoria. Lo spettacolo si snoda sotto la guida di un parodico Hitler e intende apportare un contributo originale alla memoria, sempre meno coltivata, di quanti perirono a causa di un folle progetto, al ricordo di una pagina di storia che sempre più si tramanda solo e soltanto mediante la manualistica scolastica sterile.
La regia è di Giovanni Carpanzano; musiche originali di Rosario Raffaele; coreografie di Francesco Piro, Paolo Orsini e Rosella Villani.
Tra gl’interpreti Paola Tarantino, catanzarese, che ha studiato a Roma, laureata in letteratura e filosofia con indirizzo spettacolo, diplomata alla scuola di teatro “circo a vapore di Roma”.
Ma torniamo al libro ispiratore e alla sua autrice per capire appieno e ricordare il clima di quei tristi anni di guerra e oppressione.
Elisa Springer aveva 26 anni quando venne deportata, nell'agosto del 1944 ad Auschwitz e ha scritto "Il silenzio dei vivi" ad oltre cinquant'anni di distanza da quel tragico momento storico.
Figlia di una ricca famiglia viennese, Elisa Springer ha perso nello sterminio i genitori e la quasi totalità dei parenti. Scappata in Italia nel 1940 per sfuggire alle persecuzioni in Austria, è stata arrestata nel giugno del 1944 a Milano e da lì deportata ad Auschwitz-Birkenau in agosto. In seguito è stata rinchiusa anche nei campi di Bergen-Belsen e Theresienstadt. Dopo la liberazione è tornata a vivere nel nostro paese, a Manduria, in provincia di Taranto.
Ecco, attraverso le sue parole il ricordo di quei momenti drammatici e le considerazioni seguenti in un vissuto apparentemente tranquillo e normale nell’Italia liberata:
"Mi ricordo molto bene di Bolzano. Quando sono tornata dal lager, nell'estate del '45, siamo passati per la stazione. C'erano decine di bambini che ci gettavano le mele. E' stata una cosa bellissima".
ciononostante, all’inizio nessuno voleva ascoltare. Il mio silenzio è stato causato dal silenzio degli altri. Questo è il motivo per cui tantissimi sopravvissuti ancora oggi non parlano.
Il titolo del libro, "Il silenzio dei vivi", ha dunque un duplice significato. Nei vivi sono compresi un po' tutti: noi sopravvissuti, ma anche tutti gli altri che hanno taciuto o non hanno voluto sapere.
Oggi finalmente si può affrontare pubblicamente il tema dello sterminio. Quando ho visto il Papa andare ad Auschwitz e che sui giornali e in televisione l'argomento veniva trattato con sempre maggiore attenzione, mi sono convinta che era arrivato il momento di raccontare la mia storia. Per
anni, noi sopravvissuti, le vittime, ci siamo quasi vergognati di essere scampati al lager.
Dopo la guerra ho insegnato inglese e tedesco in provincia di Taranto. Una volta un alunno mi ha
chiesto cosa fosse quel numero che avevo tatuato sull'avambraccio. Ho tentato di spiegarlo, ma i ragazzi si sono messi a ridere. Mi sono vergognata. E' stata una pugnalata al cuore. Allora ci ho messo sopra un cerotto: non volevo più essere derisa. Un cerotto che ho tenuto per molto tempo.
Oggi vedo un cambiamento: se ne parla molto di più, specialmente a scuola. Anche se, come ho detto, si paga ancora il silenzio delle generazioni precedenti. Un anno fa sono andata in un liceo di Vienna. I ragazzi erano molto attenti, curiosi. A un certo punto ho raccontato un particolare che
non compare nel libro, e cioè che nel campo di Bergen-Belsen ero nella stessa baracca di Anna Frank. Uno dei ragazzi si è alzato e mi ha chiesto "chi è Anna Frank?", non la conoscevano! Una cosa gravissima. Molti di questi giovani hanno avuto i nonni che hanno fatto la guerra, che hanno votato per l'annessione alla Germania. Questa ignoranza deriva proprio dal fatto che i loro padri e i loro nonni - non dico solo per malafede, ma forse anche perché se ne vergognano - hanno fatto diventare il passato nazista e lo sterminio dei temi tabù. Tanto da tenere nascosto uno dei classici sul lager e all'indomani del successo elettorale di Haider mi sono sentita male. Ero molto agitata. Purtroppo sembra che la gente si sia dimenticata completamente di quanto è accaduto. Probabilmente nel voto c'è anche una rivolta contro gli immigrati. E la cosa non mi fa certo stare tranquilla. Dopo Auschwitz non si può condurre una vita normale. Ci si fa l'abitudine. Ci pensi sempre, con dolore. Chiudi gli occhi ed è là. Ma ci si abitua a vivere col dolore. Oggi mi sento alleggerita, grazie agli incontri che sto facendo da due anni per presentare il libro. Quando
Parlo sento che la gente mi capisce e, a volte, mi sento felice.
Non ce l'ho con i tedeschi. Per me l'umanità è tutta uguale. Siamo tutti figli di uno stesso dio. Bisogna solo saper distinguere i buoni dai malvagi. Molti sopravvissuti non riescono nemmeno a pronunciare la parola "Germania". Io no, perché allora non bisognerebbe rifiutare soltanto la Germania, ma anche l'Austria. Non dimentichiamoci che nel '38, oltre il 90% della popolazione ha votato l'Anschluss. Anche l'Italia ha fatto la sua parte. Io sono stata arrestata a Milano su denuncia di un'italiana. Per non parlare, poi, del collaborazionismo in Ungheria, Polonia, Francia. Non si può
prendersela solo con la Germania.
Auschwitz? Non si può descrivere con un'immagine. Auschwitz significava vivere continuamente nel terrore, con la paura di non sapere se fra 5 minuti sarai ancora in vita. Bastava sentire il fischietto del campo che significava "tutti fuori, selezione", e non sapevi che sorte ti toccava. Auschwitz significava dover scavalcare continuamente mucchi di cadaveri, compagne che morivano di sfinimento e da sole, svegliarti alla mattina accanto a un cadavere. Si diventava quasi indifferenti alla morte: io mangiavo il mio pezzo di pane mentre vedevo caricare su un carrello pile di corpi. Auschwitz significava essere una persona morta, vivere come un automa finché era possibile. E vivere solo di ricordi. Pensavi solo al passato.
Recentemente ho rivisto il viso di Joseph Mengele in alcune foto. Non reggo quello sguardo, non lo posso guardare. Non sopporto quella faccia. Lo vedo sempre davanti a me, con gli occhi fissi su di noi. Noi non lo potevamo guardare, dovevamo tenere sempre lo sguardo verso il basso o al di sopra della sua testa. Con un cenno del pollice ti dava la vita o la morte. Appena arrivati ti mandava al gas o in campo, e poi faceva le selezioni ogni 15 giorni. Bastava un foruncolo o una piaga per finire nel camino. Una volta mi hanno bruciato con un ferro rovente su una coscia perché avevo sorretto una
compagna durante un lungo appello. Mi hanno chiamata fuori dalla fila e mi hanno punita davanti a tutte. Ho scampato il gas solo perché, quando la ferita era ancora aperta, non ci sono state selezioni.
Ad Auschwitz abbiamo subito degli esperimenti medici senza saperlo. In lager abbiamo perduto tutte il ciclo mestruale con gravi conseguenze. Quando sono tornata sono stata ricoverata oltre un mese a Milano. Pensavo che non sarei mai stata in grado di mettere al mondo un figlio.
Dopo 50 anni sono tornata a Birkenau. Non è cambiato niente, è come se entrassi a casa mia.
Conosco ogni angolo, ogni pezzetto". Insomma non c'era niente di nuovo, perché io vivo con quella visione. L'unica cosa che mi ha colpito un po' è stato l'arrivo a Birkenaun, sulla rampa dove veniva effettuata la prima selezione, vedere quei binari, quel portone grande... Mi sono
ricordata quando sono passata là sotto, il 6 agosto 1944. E' stato un attimo. Siamo arrivati alle 3 di notte. Abbiamo visto tutto questo filo spinato. Il lager era illuminato a giorno. Non sapevamo cosa ci aspettava, ci illudevano che saremmo andati in un campo di lavoro. Vedevamo le fiamme uscire dal camino, e sentivamo la puzza, ma pensavamo che fossero i vestiti che venivano bruciati. Pensavamo tutto tranne che fossero esseri umani.
Cercavo di ricordare i momenti sereni, prima dell'Anschluss. Pensavo ai miei genitori. Alla mia vita a Vienna. Ho avuto sempre la volontà e lo spirito della sopravvivenza. Non volevo morire e non mi sono lasciata morire. Mi sono sempre detta "un giorno finirà". Ed è stata la mia fortuna. Poi mi ha aiutato anche il fatto che parlavo perfettamente il tedesco. Dovevi ubbidire immediatamente ai comandi, e chi non capiva veniva preso a frustate: per un corpo già debole significava morire.
Per sopravvivere ognuno cercava di formarsi un piccolo gruppetto. Io avevo una mia amica, Edith Epstein, una viennese con cui ho fatto tutta la prigionia. E ci siamo date fare insieme per sopravvivere. Ma non tutte erano così. Una notte ho visto una madre rubare il pane alla figlia da sotto la testa. Gridavano, litigavano, poi la ragazza è stata uccisa. Molte si azzuffavano per il cibo
o per il posto per dormire.
Levi ha scritto: c'è Auschwitz, dunque non c'è Dio.
Io la penso diversamente. Non è stato dio a mettere l'uomo in ginocchio, ma il contrario. Dio esiste, dio c'è e non ha voluto tutto questo. E' sempre l'uomo il colpevole. Ho pregato dio. Gli ho sempre chiesto di aiutarmi. Molti, in lager, hanno perso la fede. Ma se io non l'avessi avuta, non so se ne sarei uscita viva. Quando mi sentivo abbandonata dialogavo con dio, è così che così sono riuscita a superare i momenti più duri.
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