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martedì 15 giugno 2010

Natuzza Evolo: il miracolo di una vita

“…su ‘na grasta rutta!”… A cosa o a chi può servire un vaso rotto? Al massimo, frantumato del tutto può essere usato come ciottolame per drenaggio e a nient’altro! Eppure, la “grasta”, il vaso di fiori rotto al quale Mamma Natuzza, la Mistica di Paravati, si paragonava nella sua infinita umile bontà dava conforto a ricchi, potenti e povera gente.

Natuzza iniziò da bambina a manifestare le qualità medianiche di conoscenza e visione del mondo ultraterreno; con semplicità dialogava e vedeva gli angeli e gli spiriti dei defunti come se fossero ancora in vita; non si sa come, ma lei aveva accesso a quei canali misteriosi che collegano il nostro mondo a quello dell’aldilà e ciò la fece soffrire perché non tutti, ancora oggi, nonostante gli innumerevoli episodi documentati, comprendono e sanno accogliere pacatamente i misteri dell’anima. Natuzza soffrì per la diffidenza e l’egoismo umano di quanti osteggiavano il suo essere Mezzo di contatto tra le due realtà e quanti arrivavano da lei carichi d’angosce. Lei, che tra una faccenda, un servizio domestico e l’altro, mentre friggeva patate, come ha ricordato qualcuno alla presentazione del libro di Luciano Regolo dedicato a Lei e a Gesù, e cucinava per la famiglia o accudiva un congiunto ammalato, usciva sull’uscio di casa per tranquillizzare persone di tutte le “taglie” accorse lì perché afflitte da dispiaceri e drammi, il più delle volte, terreni. Li esortava ad avere pazienza e aspettare perché doveva fare i doveri di moglie e madre.
Natuzza accoglieva tutti e a ognuno dava conforto ma, quando necessario, elargiva anche qualche salutare sferzata verbale.

Ma di questo si è già parlato e scritto; non si è ancora detto niente delle parate egocentriche di uomini, donne, pseudo associazioni culturali che cavalcano il fenomeno Natuzza con scarsa convinzione, magari presentando libri e organizzando tavole rotonde sulla sua vita; persone tronfie, indottrinate all’autocelebrazione, convinti di contare qualcosa in base al numero degli iscritti, e si evince dal titolo che precede sempre il nome dei partecipanti: la professoressa, la dottoressa, l’avvocatessa, la nobildonna, al contrario di Lei, Mamma Natuzza, che si definiva “umile verme di terra” e non stava a chiosare se davanti a un potente o umile uomo, per Lei avevano e hanno tutti lo stesso valore di uomini.
Chi mai direbbe una cosa del genere riferendosi a se stessa? A chi verrebbe in mente una simile definizione “verme di terra”. Noi che siamo proiettati verso la vanagloria e curiamo la superbia come una qualità imprescindibile. Anzi, si sente dire con una certa stizza: tu non sai chi sono io! Ora ti faccio vedere io con chi hai a che fare! Io…

Persone, queste che si riempiono la bocca di IO, attente a che si elogi meriti presunti o reali, titoli e benemerenze, coinvolgimenti in azioni umanitarie e culturali. Uomini e donne pronte a bloccare con ogni mezzo i calmi contestatori analitici delle loro vanaglorie, a prescindere se spinti da ideologie umanitarie o perché sulla scia esemplare di mamma Natuzza quando invitano all’umiltà, all’obbedienza a all’amore universale. Si potrebbe postulare a scusante generica che detti concetti sono facili da conseguire per un’Anima Santa ma difficili per noi peccatori imbevuti di materia e ancor più difficile per chi gozzoviglia nei beni effimeri dell’appariscenza poter raggiungere lo stato di umiltà che mitiga e assorbe ogni affronto. Se a ciò si somma l’indignazione scaturita dalle sofferenze che la società dell’apparire elargisce quotidianamente con estrema leggerezza ai deboli, si capisce bene come sia difficile per chi è sempre sottopressione raggiungere lo stato di quiete che prelude alla pace.

Mortificazioni e sofferenze fisiche non mancano a nessuno su questa terra; anche Lei, Natuzza, le ha subite con umile rassegnazione e si è sottomessa al volere e all’eccessiva prudenza degli organi ecclesiastici, misure sopportate stoicamente come solo le Anime Illuminate sanno accettare.
Ma Lei era ed è uno Spirito Evoluto che ha saputo andare oltre le umane debolezze, mentre noi davanti alle passerelle di certa gente, mal sopportiamo le ambiguità tematiche che accomunano gli associati ai vari schieramenti e c’indigniamo per il tentativo di spettacolarizzare anche eventi così alti.
Ecco, senz’altro, Natuzza avrebbe detto: “si ‘mpicciusu”! può darsi, anzi sicuro è così! Ma credo fermamente che se si rispetta una religione, un’idea, un progetto divino o umano e si organizza un evento per appoggiarne le linee guida, alla base di tutto deve esserci l’onestà intellettuale degli organismi direttivi, lo spazio e le idee per quanto è realmente utile alla buona riuscita e per la realizzazione del progetto, tema dall’evento.

L’hanno esternato chiaramente quanti hanno parlato fuori dagli schemi seminariali all’auditorio Casalinuovo di Catanzaro, e alcuni hanno espresso la loro personale esperienza con voce, a tratti, incrinata dall’emotività, quando il ricordo rinvigoriva la visita a Mamma Natuzza.

Luciano Regolo, autore del libro “Natuzza Evolo: il miracolo di una vita” dopo aver ricordato il primo incontro con la Mamma di tutti, Natuzza, ha confidato di devolvere i diritti d’autore del lavoro letterario alla fondazione fortemente voluta dalla Mistica di Paravati denominata: fondazione Cuore Immacolato di Maria Rifugio delle Anime, in Paravati. E il presidente della fondazione, nominato per espressa volontà di Natuzza Evolo, don Pasquale Barone, ha ripetuto quanto ormai di dominio pubblico circa la missione della Fondazione voluta dalla Madonna per bocca di Natuzza Evolo.

A leggere la vita di Natuzza monta la consapevolezza che ogni nostra pena è niente rispetto alle sofferenze di questa Grande Donna e il nostro tribolare cessa sotto lo sguardo onnipresente della sua dolcezza, perché lo spirito non muore col corpo e Lei che aveva il dono dell’ubiquità, un giorno disse: quando ti vengo in sogno io, sono lì con te, viaggio, chiedimi quello che vuoi sapere…

Pertanto, mi sento di consigliare il libro di Luciano Regolo: Natuzza Evolo. Il miracolo di una vita.

martedì 8 giugno 2010

dal barbiere

racconti di vita in Calabria


Salone. C’è scritto sulla porta del barbiere. I caratteri gotici sono sbiaditi, consumati dal sole e dalla pioggia; avranno una cinquantina d’anni come pure le poltrone con le pedane di ferro tipo grata e il poggiatesta con l’incavo per il rotolo di carta igienica.
Nella bottega il solito calendario con le donnine succinte e poche persone fanno compagnia al barbiere. Anche l’impianto elettrico, nonostante la legge sull’antinfortunistica, ricorda gli anni del dopoguerra. Qualche immagine sacra attorno agli specchi e l’immancabile discussione di politica maschilista sulle donne:

“…ai miei tempi, ricordo quando arrivavano le donnine dei bordelli… bei tempi quelli, almeno c’era pulizia, il servizio sanitario controllava periodicamente le case di tolleranza… mi ricordo che con 50 lire si entrava, si pagava l’ingresso! E poi, entravi, guardavi e sceglievi ma potevi anche stare lì a non fare niente, stavi nel salone e passavi ‘na serata con gli amici. Sì si mi ricordo quel casino vicino ai mercati, lì arrivavano le più belle, quelle con classe… la sera prima si facevano il giro sul corso e poi prendevano servizio. Sì sì me le ricordo pure io però quelle costavano 500 lire oltre l’ingresso! Roba buona roba da ricchi!
Oh ma sapete che ho sentito dire che pare che Berlusconi voglia ripristinare le case chiuse? Ma va va sempre cazzate spari tu! No no ve lo giuro lo sentito dire al bar…
Ceerto che se fosse vero… lui sì che se ne intende!

(segue: la provvidenza)

domenica 6 giugno 2010

Storie di vita in Calabria. 12: Le astuzie di donna Teresa.

Storie di vita in Calabria. 12: Le astuzie di donna Teresa.

Racconti di vita in Calabria. 1.

Donna Teresa era una signora canuta e nel suo piccolo si credeva furba, difatti impegnava chiunque le capitasse per casa e per ognuno aveva pronta la ricompensa adeguata.
Un giorno, che era rimasta sola perché ormai tutti si tenevano alla larga da lei, capitò il figlio del droghiere, conosciuto come il figlio di “nasepippa” e immediatamente donna Teresa gli chiese alcuni servigi e per invogliarlo mentre parlava gli dondolava davanti al naso una salsiccia ben stagionata e odorosa.

Il ragazzo, espletata la prima incombenza, si presenta per ritirare la ricompensa promessa ma l’anziana donna sempre dondolando il premio sotto il naso gliene chiede un’altra e poi un’altra ancora. Insomma impegna il ragazzo più del dovuto sempre con la promessa che sarebbe stata l’ultima “comanda” e che poi, alla fine lo avrebbe ricompensato con una cosa che, per il figlio di nasodipippa, incominciava a diventare un miraggio.
E mentre, il ragazzo, sudato e ansimante per la corsa fatta su e giù per le scale a trasportare la legna per il camino, si asciuga la fronte, donna Teresa osa l’ennesima richiesta sempre dondolandogli la salsiccia sotto il naso.
Pronto, il figlio di nasodipippa, afferra fulmineo la sofferta ricompensa e scappa via noncurante degli improperi della donna.

(segue)

sabato 3 aprile 2010

Eros, amore, impulso primordiale e procreazione


Eros, amore, impulso primordiale e procreazione.

La fusione tra due esseri è un mix intenso di emotività psichica e ormonale definito dai romantici “atto d’amore”, donazione incondizionata, coinvolgimento che sfocia nella procreazione di un nuovo essere.

La sublimazione romantica eleva l’amplesso a osmosi mentale, disancorandolo dall’impurità della materia.
I corpi, quindi, come strumento d’unione osmotica nella cultura occidentale; strumento procreativo più che di piacere erotico per i puritani.
Ma alcuni soggetti, pur mantenendo tali presupposti, includono sofismi erotici al fine di raggiungere piaceri intensi e spaziano dalla lingerie alle letture erotiche, dai film d’autore a quelli hard fetish violenti, ecc.; condizionati comunque dalla formazione culturale d’origine, si lasciano catturare dai sensi di colpa postumi e alla fine, dopo avere tacitato l’impulso animale, piangono le classiche lacrime di coccodrillo.

Differentemente, le culture non contaminate da tali condizionamenti intellettuali mantengono intatto l’antico impulso animale; per questi ultimi l’accoppiamento sessuale è un’esigenza corporea priva di tabù al pari del cibo. Procreano e soddisfano impulsi umani.

mercoledì 20 gennaio 2010

fernanda pivano e la beat generation


Fernanda Pivano e la beat generation
Per Fernanda, i tanti autori conosciuti in prima persona non sono strumenti di semplici pezzi di storia letteraria ma frammenti della sua esistenza in cui si uniscono anni di vita e di studio, tant’è che definisce genericamente " miei eroi" la totalità; "miei beat" Ginsberg e Kerouac, e “miei maestri” Abbagnano, Hemingway e Pavese. Hemingway e Pavese, agli occhi di Fernanda Pivano, hanno in comune una integrità professionale e morale assoluta.
Attenta alle mutazione della società e della cultura americana traduce Hemingway, Faulkner, Fitzgerald e li propone in Italia nella sua pubblicazione degli scrittori contemporanei più rappresentativi: dagli esponenti del movimento nero, come Wright; ai protagonisti del dissenso non violento degli anni '60, Ginsberg, Kerouac, Burroghs, Ferlinghetti, Corso; fino agli autori "minimalisti", prima Carver poi Leavitt, McInerney, Ellis.
L’“esploratrice” italiana della beat generation, Fernanda Pivano, Figlia di Riccardo, illuminato miliardario possessore di una banca, e della bellissima Mary Smallwood, nasce a Genova il 18 luglio del 1917, dopo le elementari, nella scuola svizzera, l'infanzia genovese, all’età di 9 anni si trasferisce a Torino e qui, al liceo d'Azeglio, incontra Primo Levi. Laureatasi nel 1941 con una tesi su Moby Dick, due anni dopo inizia l’attività letteraria sotto la guida di Cesare Pavese con la traduzione dell'Antologia di Spoon River di E.L.Masters. Allieva di Pavese e Nicola Abbagnano, ordinario di storia e filosofia dell’università di Torino, esponente della corrente esistenzialista italiana e fondatore dell’esistenzialismo positivo, consegue una seconda laurea in filosofia nel 43, lavora al fianco di Abbagnano come sua assistente per diversi anni.
Fernanda, innamorata della letteratura, nel 1948, a Cortina, conosce Hemingway e traduce il suo Addio alle armi. Nel 1949 sposa Ettore Sottsass jr, che fotografa e immortala i tanti viaggi indimenticabili e gl’incontri con Allen Ginsberg, Jack Kerouac, Gregory Corso, Lawrence Ferlinghetti, Neal Cassidy.
Nanda, s’innamora della letteratura americana per la forma scarna della narrazione, in netta antitesi con la tradizionale letteratura pragmatica e accademica europea; letteratura libresca, basata su indagini psicologiche.
"Mi hanno attaccata per non aver mai valutato i libri, ma io mi sono limitata ad amarli, non a valutarli: questo lavoro lo lascio ai professori".
Questa sua frase evidenzia il distacco dall'estetica pura impartita nei corsi di studi convenzionali e basa l’interesse letterario personale sulle vicende biografiche, sull'ambiente e sui fermenti sociali in cui sono immersi gli autori.
Bellezza e utilità dei volumi da lei tradotti è spesso documentata nelle lunghe e introduzioni accompagnate da saggi biografici. Dall'osservazione della realtà americana nascono i saggi: "America rossa e nera" (1964); "L'altra America negli anni Sessanta" (1971); "Beat Hippie Yippie" (1977); "C'era una volta un beat" (1976); "Il mito americano" (1980). Altri scritti sono raccolti anche in "La balena bianca e altri miti" (1961); "Mostri degli anni Venti" (1976).
Il primo viaggio negli Stati Uniti e' del 1956 e in India del 1961. Nel 1959 esce in Italia, con la prefazione della Pivano, Sulla strada (Mondadori) di Kerouac e nel 1964 Jukebox all'idrogeno di Ginsberg da lei curato e tradotto.
Nella sua movimentata vita, come già visto, incontra i maggiori scrittori contemporanei: Saul Bellow, Henry Miller, John Dos Passos, Ezra Pound, Gore Vidal, Jay McInerney, Judith Malina e il Living Theater e gli italiani Giuseppe Ungaretti, Alfonso Gatto, Salvatore Quasimodo.
Nel 2001 si reca a Ketchum, nell'Idaho, in un viaggio che la riporta nei luoghi della beat generation e dei suoi amici scrittori per il film documentario A farewell to beat di Luca Facchini.
Ma, Nanda è anche pianista! Diplomata al decimo anno di conservatorio, apprezza ed entra in sintonia con molti musicisti, tra questi: Bob Dylan, Lou Reed, Jovanotti, e Fabrizio De Andrè che considera enfaticamente e con affetto il piu' grande poeta italiano del secolo al quale dedica un testo che ha lo stesso titolo della canzone di De Andrè “La guerra di Piero” interpretato da Judith Malina. In occasione dei suoi 90 anni, nel 2007, conferma la sua gratitudine agli intellettuali che le hanno consentito di coltivare la passione per l’arte: "ho avuto due o tre eroi nella mia vita: il più grande e' stato Ginsberg. In America stanno pubblicando le lettere che mi ha scritto, mi raccontava cosa aveva visto dovunque andasse. Hemingway e' stato al di la' della misura. I miei maestri prima dell'America sono stati Pavese e Abbagnano, mi hanno insegnato tutto quello che so. Sono stata un'esistenzialista".
Per concludere, Fernanda Pivano è stata una figura carismatica della cultura italiana antifascista, frequentò poeti e scrittori della Beat Generation. Visse in America, a stretto contatto con Kerouac e gli atri artisti del movimento beat ma mai si lasciò tentare dai paradisi artificiali usati dai suoi amici per esplorare i mondi del subconscio; nemmeno uno spinello, diceva, niente alcol, funghi e peyote, Lsd e tutto il resto, nemmeno a pensarci. In America dal 1956, capì subito la novità rappresentata dai cercatori di nuovi stati di coscienza. Giovani contestatori che modulavano prose e versi sui battiti del bebop, il jazz esistenzialista di Charlie Parker, (secondo alcuni, padre dello stile jazz chiamato bebop. Virtuoso del proprio strumento, che suonava con una tecnica eguagliata da pochi, fu anche un personaggio dalla vita tormentata, segnata dalla dipendenza dalla droga e dall'alcool: il peggio di uno stile di vita che echeggiò al di fuori del campo strettamente musicale; ispirò i poeti della beat generation, nelle cui liriche, il jazz e Parker stesso sono citati.) i musicisti neri si pongono due obiettivi: liberarsi dai rigidi arrangiamenti delle big band per esprimersi e manifestare liberamente la loro ribellione al mondo ipocritamente sorridente di quegli anni.
Per Jack Kerouac, Allen Ginsberg, Gregory Corso, Lawrence Ferlinghetti, Nanda fu una affettuosa sorella maggiore, una vice-madre saggia e comprensiva. Fu lei a tradurre i loro libri, a battersi perché opere come Sulla strada e Urlo fossero pubblicate in Italia. Dedicò soprattutto ai poeti i suoi sforzi maggiori, componendo l’antologia Poesia degli ultimi americani (Feltrinelli) con la quale offrì ai lettori italiani un tesoro di novità. Li ospitò nella sua casa a Milano (in quel periodo, Nanda era ancora sposata con l'architetto Ettore Sottsass), li aiutò e si fece spiegare il senso e le allusioni della loro lingua da iniziati, senza pregiudizi. In una rara intervista televisiva realizzata per la Rai, Fernanda Pivano chiese a Kerouac: «Jack, dimmi, ma perché non sei felice?» E lui, visibilmente deturpato dall’alcol, non rispose.

sabato 16 gennaio 2010

Lawrence Ferlinghetti e l'autocoscienza sociale


Lawrence Ferlinghetti

Nasce il 24 marzo del 1919 a Yonkers; da padre italiano e madre ebrea/francese. Orfano fin dalla nascita, il padre muore prima che egli nasca, mentre la madre, ricoverata per un forte esaurimento nervoso, non riesce ad accudirlo ed è affidato agli zii materni che lo portano in Europa e poi di nuovo a New York. A causa di problemi economici viene messo in un orfanotrofio e poi ripreso con sé dalla zia in una ricca casa presso cui lavora. Poeta e pittore; esponente di spicco della beat generation, il suo “Coney Island of the Mind” è il secondo libro più venduto al mondo dopo la Bibbia.

Ma, prima dell’avventura culturale si arruola in marina, sbarcando in Normandia e permanendo anche a Nagasaki, per tornare, successivamente a iscriversi come reduce alla Columbia University. Nel '50 si laurea alla Sorbona. Inizia a scrivere e a dipingere e svolge il ruolo di insegnante.
Nel giugno del 1953 apre con Peter Martin una libreria specializzata in edizioni tascabili, al 261 di Columbus Avenue la City Lights Pocket Publisher and Bookshop, prima libreria e casa editrice americana di soli tascabili e luogo di ritrovo di poeti ed artisti.
Nel 1956 è processato e assolto per la pubblicazione di “Howl” di Allen Ginsberg, quarto libro della serie Pocket Poets. Il suo “A Coney Island of the Mind” vende oltre un milione di copie. Tra gli altri suoi libri: “Her, Starting from San Francisco, Routines, The Secret Meaning of the Things, Who are We Now, Endless Life, Love in the Days of Rage, These are my Rivers, A Far Rokaway of The Hearth, Shards-Cocci, What is Poetry, Americus, Blind Poet”.
La sua condotta, apertamente contraria al governo statunitense degli anni 60, suscita le attenzioni dell’effebiai, iscritto nelle liste dei cittadini sorvegliati dall’agenzia governativa (F.B.I.), è arrestato nel 1965 per aver protestato contro la guerra in Vietnam. Nuovamente libero, gira per il mondo e porta ovunque il suo impegno di scoperta, valorizzazione e ampliamento dell’autocoscienza individuale e sociale, riscontrabile nelle sue parole: “Penso che non si debba più usare il termine ‘poesia’ ma ‘messaggio orale destinato al pubblico. Penso che le poesie bisogna gridarle, magari accompagnarle con complessi musicali jazz (…) Insomma fare tutto il possibile perché questi messaggi orali riescano a cambiare un po’ la coscienza e il cuore dell’uomo. Penso che non si possono più scrivere poesie d’amore ma lunghe poesie di impegno; che si debba affilare il verso come un’arma destinata alla pace”.

giovedì 14 gennaio 2010

Kerouac, Ginsuberg, scrittori della beat generation


Jack Kerouac, Allen Ginsberg e il movimento beat
Il sogno della generazione beat non dura a lungo e come tutti i sogni cessano al mattino. L’impatto col giorno riporta le menti all’amara realtà, alle prese con le teorie pratiche voracemente consumistiche, freddamente gestite dalle lobby di potere.
L'enorme campagna pubblicitaria condotta in America sul fenomeno beat riesce ad inflazionare il movimento stesso. Condiziona il vasto pubblico che, indottrinato, ripete i luoghi comuni del battage pubblicitario o i pregiudizi della critica conservatrice. Insomma, si evidenzia soltanto l'aspetto esteriore della vita beat. Diventa una moda la cui connotazione esteriore è ravvisabile nei capelli lunghi, barba incolta, vestiti estrosi, conseguenza sicuramente lontana dall’intenzione dei promotori.

La generazione del secondo dopoguerra s’identifica negli scritti di Kerouac e Ginsberg che, per le tematiche trattate, li elegge idealmente portabandiera del movimento pacifista.
I libri beat, negli anni sessanta, sono accolti dalla critica con severità e asprezza; tant’è che il successo di "Sulla strada" di Kerouac e "Urlo" di Ginsberg, è marchiato dai critici come un fenomeno di curiosità collettiva, un fatto di costume e li bollano di letteratura sgrammaticata, prosa scomposta, verbosità sterile priva di poesia innovativa.
Quando Kerouac dichiara di professare il buddismo e dedicarsi alla meditazione zen, i detrattori del movimento letterario beat riprendono a confutare l’assenza innovativa e asseriscono che l'intera faccenda beat è e rimane un fenomeno esclusivamente pubblicitario. Incuranti, Kerouac e Ginsberg continuano a scrivere e pubblicare anche scritti degli anni precedenti, quando, sconosciuti, aspettano un editore disposto a pubblicare le loro opere.
Intorno alla metà degli anni 60, arrivano in Europa e anche qui i critici assumono un atteggiamento di raffronto in riferimento alla letteratura europea.
In Europa il movimento beat è subito sminuito e ricondotto alla letteratura esistenzialista francese del secondo dopoguerra. Solo dopo qualche anno in America si sviluppa un’analisi letteraria che differenzia la Beat Generation dalla Lost Generation, rivoluzione attiva l'una e passiva l'altra. Allo scopo di spiegare il rapporto tra passività e misticismo contemplativo della religione Zen.
La prosa di Kerouac, studiata e analizzata a fondo, lascia intendere che non tiene in considerazione l'esistenza del razionale ma solo l’aspetto della realtà biologica e fisiologica. I beat non si preoccupano di distruggere mitologie o sovrastrutture mentali, rifiutano completamente il consorzio umano concepito dalla borghesia capitalista.
Nelle prime opere di Kerouac e Ginsberg si nota l’entusiasmo ai fatti quotidiani come fonte di ispirazione. Questa caratteristica differenzia gli scrittori americani dai fenomeni letterari europei basati su esperienze intellettuali o ideologiche. Da ciò, si intuisce pienamente il rifiuto della scienza intesa come arma di persuasione. Infatti, la generazione beat dichiara che con il lancio della bomba atomica si decreta la fine dei tre mostri che hanno distrutto la gioventù dei precedenti trent’anni, Freud, Marx e Einstein. Sintomatica, quindi la differenza tra certa poesia beat e le folgorazioni di Rimbaud o le illuminazioni di Blake, pur riconosciuti dai beat come gli europei più vicini alla loro poetica.
Le visioni metafisiche di Ginsberg non sono concettuali come quelle di Rimbaud ma sono deformazioni di immagini concrete, carnali, che possono andare da un semaforo ad un'insegna al neon. Anche Kerouac, considera necessario vivere la vita con passione e scrivere per la propria felicità personale. Kerouac consiglia di scrivere “con eccitazione in fretta fino ad avere i crampi in accordo alle leggi dell'orgasmo”. Si rifà in questo alla scrittura automatica, all’improvvisazione jazzistica per conferire un ritmo serrato ai suoi scritti. Le parole dello slang beat sono violente, incisive, veloci e monosillabici, carichi di tensione e potenza allusiva.
La vita di Kerouac e dei beat non finisce in rovina come quella dei dadaisti o degli espressionisti o dei surrealisti europei, ma comincia in rovina. Per i beat non c'è futuro e non c'è passato nel caos del mondo, esiste solo un istantaneo presente, inesplicabile e nemico, che solo la liberazione dalle dimensioni dello spazio e del tempo può far provvisoriamente superare. Gli elementi per superarle sono fisiologici (come l'orgasmo) o mistici (come le visioni) o passionali (come il jazz) o artificiali (come la droga). La qualità fondamentale di Kerouac e dei beat va ricercata nell'intensità emotiva, nelle immagini dense e vibranti.
La cultura Beat ha segnato l'intera generazione del secondo dopoguerra e ancora oggi, a distanza di oltre mezzo secolo, è innovativa e rivoluzionaria.

mercoledì 13 gennaio 2010

utopie generazionali: beat generation e la forza dell'amore



Quando si parla di Beat Generation la memoria storica corre in America e localizza il movimento giovanile in due sedi, New York e la Baia di San Francisco. In entrambi i luoghi, il fervore creativo rinnovò i linguaggi artistici della pittura, della scrittura, della musica e dei linguaggi in genere compreso l’abbigliamento; il tutto contaminato dalla filosofia di vita che spinge gli uomini all’amore universale e che lega i popoli alla madre terra. L'atmosfera solare e naturistica della West Coast, e quindi di San Francisco, contribuì a stemperare gli spiriti inquieti degli scrittori beat di New York e molti, soggiogati dalla natura selvaggia della California, si convertirono al Buddismo. San Francisco beneficiò della loro presenza; anche la scena musicale dal sapore acido degli anni sessanta nata con Ken Kesey's è frutto della cultura beat. La città di San Francisco divenne la Times Square della prima generazione beat e la mitica libreria "City Lights bookstore" di Lawrence Ferlinghetti è ancora all'angolo fra Broadway e Columbus. Più a sud troviamo Monterey, Carmel-by-the-Sea e la costa montuosa nota come Big Sur, qui, nel 1961, Jack Kerouac trascorse un’estate intera immerso nella solitudine della meditazione.

sabato 9 gennaio 2010

Angiolina Oliveti, le rose nel cestino



Tutti i giorni, alla stessa ora, giunge un mazzo di rose alla protagonista del racconto che, metodicamente, distrugge.

Angiolina Oliveti traccia un percorso semplice la cui narrazione cosparsa di realismo poetico, spolvera di patos comuni esperienze umane: malattia e passione trasformate in dramma esistenziale sviluppano una storia composta di semplici eventi.
Amori che segnano la vita. Amori dissolti; amori che potrebbero nascere… nella breve e accattivante narrazione, la suspense accompagna il lettore fino all’ultima riga e, quando sembra di aver individuato il colpevole, ecco il colpo di scena descritto in poche battute.
Le rose nel cestino è una piccola perla; un racconto piacevolmente enigmatico che tinge di giallo personaggi e società calabresi.

Mario Iannino

mercoledì 23 settembre 2009

Noam Chomsky, i figli dei fiori e la guerra del vietnam



Noam Chomsky, filosofo e teorico della comunicazione, professore emerito di linguistica all’Institute of Techonology del Massachusetts, sostiene che Kennedy ordinò di bombardare il Vietnam del Nord già nel 1962, camuffando i bombardieri coinvolti nell’azione di guerra con insegne sudvietnamite, per mascherare il coinvolgimento statunitense.

 Inoltre accusò Kennedy di aver autorizzato l'uso del napalm assieme ad altri programmi bellici per piegare la resistenza attraverso la distruzione delle coltivazioni vietnamite. Mentre altri sostengono che il reale coinvolgimento statunitense nella Guerra del Vietnam avvenne nel 1964 come reazione al bombardamento del Brinks hotel.

Ad avvalorare la tesi di Chomsky l’elaborazione della “teoria del dominio” presentata dal giovane senatore John F. Kennedy ad una riunione dell’ American Friend of Vietnam, in cui, teorizzava: “il Vietnam rappresenta la pietra angolare del mondo libero nel sud est asiatico, la chiave di volta, il tappo che chiude il buco della diga nel caso che la marea rossa del comunismo inondi il Vietnam, un paese che si trova lungo una linea che unisce Birmania, India, Giappone, Filippine. Laos e Cambogia”

L’intenzione americana, stando ai fatti appena descritti, fu di inserirsi nella politica interna sudvietnamita così da eliminare gli elementi sovversivi presenti nel sud e creare un movimento secessionista dotato di armi americane. Eliminato il nord gli USA sarebbero stati le sentinelle del confine cinese pronti ad arginare l’ondata del comunismo in Asia.
È inutile aggiungere che le intenzioni furono disattese e che l’azione di politica estera esportò morte e distruzione fratricide anche attraverso l’esasperazione delle differenti culture territoriali religiose, politiche e etniche operate da leader fantocci
I giovani pacifisti di quegli anni, coniano slogan contro la guerra per esaltare i loro ideali di pace e libertà; quali: "Mettete dei fiori nei vostri cannoni" e "Fate l'amore, non la guerra". I “figli dei fiori” o hippy si distinguono dalla massa. Vestono panni allegri; vivacissime stoffe decorate con motivi floreali e sfoggiano fiori sul viso e sulle mani; inizia a vedersi qualcosa di nuovo a S. Francisco e anche nelle città europee.
L’amore per la pace e la libertà li porta a teorizzare la comunione dei beni, la vita sociale e l’educazione dei giovani in una sorta di famiglia allargata: la comune. Nelle comuni dei “figli dei fiori” non esiste la proprietà privata. Il movimento hippy scuote l'opinione pubblica e molti registi dedicano pellicole. Lo stile di vita hippy influenza anche la musica popolare con il rock psichedelico in quanto linguaggio dei giovani. Nasce la beat generation che teorizza la rivoluzione sessuale; fa uso di stupefacenti e allucinogeni (lsd e cannabis) per esplorare stati di coscienza alternativi. La rivoluzione dei figli dei fiori culmina sulla costa occidentale degli US al festival di Woodstock nel ’69.
La diversità culturale e religiosa abbracciata dagli hippy, la filosofia orientale e l'elemento spirituale raggiungono il vasto pubblico dell’era dell’acquario: “quando la luna entrerà nella settima casa e giove si allineerà con marte sarà la pace a guidare i pianeti e sarà l’amore a dirigere le stelle”.
Ma, Fernanda Pivano, esponente italiana della beat generation, che sognava insieme ai poeti americani la rivoluzione dei fiori, nell'antologia "L'altra America" del 1971, si chiede dove sono finiti i fiori visto il rapido cambiamento culturale all'indomani del sessantotto.

venerdì 11 settembre 2009

dalle opere di Oppenheim al Siddharta di H. Hesse



In Siddharta, Hermann Hesse, racconta la storia di un uomo che cerca. Cerca di vivere interamente la propria vita passando di esperienza in esperienza. Passa dal misticismo alla sensualità; dalla meditazione filosofica alla vita frenetica degli affari senza fermarsi mai presso alcun maestro poiché non considera definitiva nessuna esperienza acquisita. Siddharta vuole comprendere, penetrare il misterioso tutto dai mille volti cangianti; e alla fine lo trova nel sorriso costante e tranquillo di Gotama, il Buddha.
Ma prima di arrivare a tanto, Siddharta gioca tra gli uomini-bambini, diventa ricco col commercio adoperando le stesse furbizie dei mercanti e indossa molteplici maschere che dismette nel momento in cui ritiene di avere concluso l’esperienza. Esplora povertà e ricchezza; mendica cibo ed elargisce ricchezze.
Infine, la ruota ingannevole delle apparenze rifluisce dentro il perfetto sorriso di Siddharta allorché intuisce il vero senso della vita e lo esterna con lo stesso impenetrabile sorriso visto centinaia di volte sul vecchio rugoso volto di Gotama.
La vita è il risultato di un gioco serio; la somma di esperienze accumulate nel tempo che traducono in metafore la mutevolezza dell’essere.
Davanti alle maschere rovesciate di Oppenheim -che il suo delirio giocoso trasforma in chiglie con vele- adagiate tra gli ulivi del parco archeologico della Roccelletta di Borgia, considerando, appunto la mutevolezza umana, non si può evitare di pensare ai molteplici aspetti della vita cui ogni essere è costretto o, meglio, tenuto a sondare liberamente.
(mario iannino)

martedì 28 aprile 2009

il graffio dell'aquila, racconto breve sull'essere writer

racconto breve. tutti i diritti riservati ©mario iannino
aore12

Il graffio dell’aquila

Le strade vuote sono solo un ricordo, come pure la familiarità dei volti che s’incontravano un tempo durante la passeggiata. Ora, i “quattro passi per incontrare gli amici” sono rimpiazzati dallo shopping frenetico e le strade cittadine sono il luogo d’assedio di un intenso esercito d’acciaio, rumoroso e arrogante. Le macchine invadono le corsie, i marciapiedi e persino gli scivoli per i disabili. Mezzi meccanici e dissuasori ostruiscono l’accesso dei negozi, delle case… E gli incroci?, gl’incroci sono diventati punti nevralgici di improbabili affari: gente di tutte le razze aspetta il rosso per tendere la mano, lavare il vetro o offrire fazzoletti di carta!

La vecchia fisarmonica ha una voce flebile; è quasi un lamento impercettibile. Mi accorgo della presenza dell’uomo dall’ombra che mi butta addosso. Alzo lo sguardo: sarà alto un metro e sessanta; cicatrice sulla guancia destra e capelli crespi ossigenati. “Dare tu kualcosa pe manciare crazie”. Ripete con voce roca il miserabile, a noi, benestanti automobilisti italiani. A dire il vero sono pochi i finestrini che si abbassano e le mani che sbucano con qualche moneta per la ragazza che agita stancamente il cestino della questua.
Alla mia destra, il conducente della piccola cilindrata freme; scarica la sua vitalità sui comandi del mezzo meccanico personalizzato all’inverosimile:
L’egocentrismo giovanile contamina gli oggetti; li modifica secondo un’intima estetica, che, a primo acchito, può sembrare dissacrante, priva di leggi ma non lo è! La giovane esperienza legittima una filosofia di vita che li uniforma tutti; li rende somiglianti al proprio sentire, li correda di simboli e i loro feticci diventano l’appendice naturale di una personalità plurale.
Nel caso in questione, il carattere del singolo si manifesta attraverso i colpi d’acceleratore che fanno a gara col volume dello stereo, la grinta, i tatuaggi ed i capelli sparati. Meglio ignorarlo! Dirigo l’attenzione verso il semaforo. Oltre la luce rossa, dall’altra parte della strada, la piazzola del bus è invasa da calchi di gesso dozzinali e piante sempreverdi a dieci euro. Il mercante di statue parla col venditore di piante. Sgasate rabbiose sollecitano il capofila ancor prima che scatti il verde. Le moto impennano. Scatta il verde. Ingrano la prima. Il serpentone d’acciaio, di cui io faccio parte, fa pochi, pochissimi metri, giusto il tempo d’oltrepassare l’incrocio e scrasc s’arresta. La signora, dopo il primo attimo di smarrimento, reagisce con forza. Estrae il telefonino e spegne il motore, determinata a non spostarsi fino all’arrivo della forza dell’ordine. I clacson impazziscono. Le macchine contromano impediscono ogni tentativo di manovra. Non rimane che aspettare! L’ingorgo aumenta. Qualcuno scende dalla macchina e s’avvicina al luogo dell’incidente. Dal nulla, spunta un nugolo di ragazzini minuti. Il più piccolo arriva appena al finestrino; si alza sulle punte e bussa al vetro. Fa tenerezza. Nonostante ciò, non abbasso il vetro. Lo osservo mentre disegna cerchi concentrici sul finestrino: le sue unghie contornate da un velluto nero scivolano sulla superficie. Mi sorride! Si gratta i capelli arruffati; strofina la manica sfilacciata sulla bocca e passa oltre. Lo seguo con gli occhi sgattaiolare tra le macchine. Di tanto in tanto si gira, guarda indietro. Attraversa, e ripete le stesse movenze sull’altra corsia. Ormai il traffico è intasato. Il piccolino, si affianca ad uno più grande; gli sta dietro, chiede qualcosa, poi lo abbandona e riprende a grattare con la manina sui vetri delle macchine. Il venditore di statue indica un percorso alternativo.
Alcuni automobilisti imboccano una stradina laterale non asfaltata e, dopo pochi minuti, ricompaiono qualche metro oltre l’incidente. Seguo il loro esempio. La macchina saltella; le ruote sprofondano nelle buche salgono sulle pietre torcono i bracci; ed io, sballottato da una parte all’altra, faccio fatica a tenere lo sterzo. Qua e là, quasi buttate a caso, lungo il precorso accidentato sorgono delle costruzioni in lamiera e mattoni. Un ruscello putrido attraversa le baracche popolate da marmocchi; qualche cane, un paio di capre e due asini. La stradina finisce davanti l’ultima casupola poggiata al muro di pietre ingabbiate nella rete metallica. Faccio retromarcia; posiziono la macchina, ingrano la prima e mi blocco: un enorme cane rabbioso, sbucato da chissà dove, ostruisce il passaggio. Lui, la bestia, abbassa il muso, digrigna i denti e mi punta. Do gas lentamente; cerco di aggirarlo. Svolto dietro la baracca. Giro l’angolo: cinque viuzze tutte uguali si aprono a ventaglio. Ne prendo una a caso, confidando nella buona stella. Lo scenario non cambia: rottami disseminati dappertutto, carcasse di macchine, lavatrici, ferrivecchi, baracche e la belva che digrigna i denti sempre davanti a me. Le donne sull’uscio mi scrutano diffidenti. Un uomo fa cenno di fermarmi. Freno; abbasso il vetro e: “Cerchi qualcuno?” “No, credevo di sbucare da qualche parte oltre l’ingorgo ma mi sono perso!” il villaggio si anima. Una marea di marmocchi accerchia la macchina. Una donna fa segno che c’è una gomma a terra. Cerco il cane: non lo vedo. Scendo. I bambini m’indicano la ruota. Impreco. Mi guardo attorno diffidente. Apro il cofano. L’uomo m’interroga nuovamente, ma questa volta in dialetto: A sai cangiara? (1) –e senza aspettare risposta, intima: Totò provvìda! (2) Prontamente, Totò, esegue gli ordini. Il cane abbaia; i bambini lo trattengono. L’uomo lo zittisce-.

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