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domenica 26 giugno 2011

Calabria, crocevia di storie

Gente del sud.

Ricordo chiaramente la sensazione di disagio che saliva quieta mentre mi accingevo a trascorrere un periodo della mia vita in luoghi sconosciuti. Luoghi che, a detta dei media, sono tutt'ora sinonimo di ‘ndrangheta, di malaffare e violenza. Se fosse dipeso da me avrei fatto volentieri a meno, e mentre preparavo le valigie immaginavo scene di sangue, aggressioni, arroganze … ma no! Ripetevo mentalmente per farmi coraggio. Eviterò i luoghi malfamati, le periferie e le persone rozze. Mi faccio i fatti miei e dopo il lavoro, una doccia e via su qualche spiaggetta dei mari del sud!, tra lo Jonio e il Tirreno c’è solo l’imbarazzo della scelta! Sì, mi faccio i fatti miei e mi godo il sole e il mare pulito della Calabria selvaggia.
©arch.M.Iannino
veduta sullo jonio

Quant’è vero che la fantasia condiziona la realtà anche di noi calabresi cresciuti nelle città. A furia di sentire storie di cronaca nera, tutto diventa cattivo. È come un virus che penetra dentro il corpo buono e lo infetta, provocando, a volte, metastasi.
Oggi lo posso affermare con convinzione! La Calabria, non è tutto quello che si legge o si sente. La Calabria e la sua gente sono ben altro! L’ho scoperto a mie spese. Non perché abbia deliberatamente fatto delle ricerche, ma perché condizionato da un lavoro che mi ha portato a conoscere moltissimi paesini dell’interland compresi quelli che mai avrei pensato di visitare. Paesi che nell’immaginario collettivo sono covi di ‘ndranghetisti, con cantine trasformate in covi per latitanti e campagne piene d’insidie.
Ci sono anche questi!, inutile negarlo; paesi tristemente noti per faide sanguinarie tra persone dotate di un’intelligenza primitiva protese a salvaguardare i propri interessi con ogni mezzo, anche con la violenza, ma non sono per strada a dare fastidio alla gente che passa, sono attenti ai loro affari come nel resto del mondo; d’altronde, la cronaca parla di episodi efferati accaduti a Roma, Milano, New York. E che dire, allora, delle guerre economiche innescate dai poteri occulti dell’alta finanza? Di quella lobby famosa come mafia dei colletti bianchi che pur di guadagnare e fare profitti non bada a nulla? La stessa che fa transazioni d’affari con imprenditori sani e malavitosi senza battere ciglio? La seconda scelta, naturalmente, non giustifica la prima, ma è tanto per ricordare che nella società ci sono i buoni e i cattivi dappertutto!
Cosa diversa è la delinquenza comune, il bullismo, l’indifferenza, fenomeni sociali, questi, che fanno più vittime nelle grandi città piuttosto che nei paesini dove tutti si conoscono e l’ospitalità è ancora ritenuta un dovere sacro da rispettare. Ma quanti sono o saranno indotti a recarsi in quei luoghi da pressanti situazioni lavorative e quanti invece per amore di bellezza per la conoscenza? saranno le stesse che abbattono le paure perché ne va di mezzo la tranquillità economica personale e della famiglia per chi è sposato? Ecco, questo mi sono chiesto, specie dopo aver letto un articolo su Repubblica a firma di uno scrittore, noto per avere scritto un libro sulla camorra, ora sotto protezione perché ha ricevuto minacce di morte dopo averlo pubblicato e conteso dai “salotti sull’antimafia”, che titolava “Così si muore in Calabria, per la legge della terra” e intercalava, a mio avviso, quasi compiaciuto: “…ma questa non è una strage dettata semplicemente dal raptus di paesani che vivono in terre del sud dove ci sono più pistole che forchette…”.
La mia esperienza, dicevo, è diversa. Ho conosciuto i calabresi, quelli resi “brutti” da giornalisti e scrittori di cronaca dalla penna facile; sono entrato nelle loro case; non ho trovato pistole nei cassetti delle cucine ma forchette e posate. Posate per imbandire le tavole con lo scopo di accogliere degnamente gli ospiti.
Le storie che seguono, se pur romanzate prendono spunto da esperienze reali. Incontreremo i luoghi e l’animo della gente, le diverse realtà conosciute in uno spaccato molto vicino al vero, come i paesi dell’accoglienza dove gli extracomunitari si sono insediati e convivono con i calabresi tra scorci paesaggistici d’incommensurabile bellezza.
Buona lettura.

mercoledì 1 giugno 2011

accoglienza in Calabria, tenuta calivello

Le grandi occasioni creano sempre emozioni discordanti, vuoi perché costretti a orari e etichette particolari che certamente non sono osservati nella quotidianità ma anche per i fattori insiti della cerimonia in questione.
Matrimoni, comunioni, cresime, battesimi, compleanni, dottorati, congressi, se non saputi organizzare si trasformano in momenti di torture per gli ospiti perché spesso manca la cultura dell’accoglienza anche laddove si pensa, vista la location, che ci sia.
L’accoglienza e il menù sono i cavalli vincenti dei siti di ristoro e accoglienza aperti al pubblico, siano essi resort, B&B, spa, alberghi o semplici trattorie.
Certo, a nessuno piace aspettare nel parcheggio col sole che cala a picco davanti ai cancelli chiusi di un noto complesso turistico sol perché in anticipo rispetto l’ora prestabilita. E neanche pranzare con il rumore della musica e il brusio dei commensali costretti a gareggiare con la voce della band.
Per questi motivi gl’inviti a eventi grandiosi come matrimoni e simili mettono ansia in chi li programma e angoscia negli ospiti.

Finalmente, ecco che l'acume di una perspicace cerimoniera conduce i suoi ospiti, e io tra loro, in un posticino dove tutte queste anomalie sono state debellate grazie al garbo e alla cultura della titolare: Giovanna. Una donna fine e sensibile da sembrare fuori tempo in virtù della sua cultura in netto contrasto con il modello dominante degli avventurieri dell’imprenditoria operanti nei settori dell’accoglienza.
È un posticino appena fuori di Catanzaro, subito dopo la galleria del Sansinato, immerso nel verde e domina l’ingresso della città capoluogo di regione.
Gli arredi, suggerii dal gusto e dalla sensibilità della padrona di casa mettono subito a proprio agio gli ospiti, che, liberi di passeggiare nel verde ben curato o sorseggiare un drink seduti sui vimini dei gazebo, attendono in completo relax il banchetto o si attardano dopo nell’attesa di un buon caffè.
Finalmente un posto davvero accogliente che fa onore alle bellezze della Calabria.

Nella brossura si legge:

La Tenuta Calivello, appena fuori Catanzaro, con il suo antico casale posto al centro della proprietà della famiglia Mazza-Sanseverino, rappresenta una sorpresa inaspettata che emerge tra gli ulivi e gli alberi da frutto, dominando la vallata circostante e scoprendo alla vista un panorama insolito e suggestivo.

Ancor di più lascia senza fiato l'incantevole raffinatezza del casale, recentemente restaurato, con la sua intensa ed insolita bellezza, con le sue linee forti ed essenziali, guardiano silenzioso di una storia senza tempo.

La baronessa Mazza, padrona di casa, insieme ai suoi figli Francesca, Giovanna e Carlo ha fortemente voluto il restauro di questo incantevole luogo.

Nel rispetto dello stile dell'antica struttura si è ridato vita a quanto di caratteristico era rimasto. Ciò che invece mancava è stato sapientemente scelto tra oggetti di antiquariato risalenti al periodo della struttura.

Grazie a questi accorgimenti, entrando oggi all'interno di questo casale si ha la sensazione di fare un balzo indietro nel tempo.

Ed è vero!

lunedì 7 marzo 2011

mediterraneo, rotta di migranti

storie di vita in Calabria©

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Ci vediamo al Blanca! Ssi va bbe’ sciao… Risponde la ragazza mentre sale sul motorino e parte nella direzione opposta a quella imboccata dal ragazzo. La stradina è stretta e le macchine parcheggiate ai bordi la rendono ancora più angusta. Le case arroccate sul pendio sembrano dover cadere da un momento all’altro; invece sono saldamente ancorate nella roccia della costa e dominano in tutta sicurezza il mare. Quel mare limpido che fu teatro di innumerevoli storie, vere e fantasiose, in cui giacciono chissà quanti tesori. Ma ai ragazzi non importa nulla dei ritrovamenti archeologici, dei percorsi culturali e dei bronzi di Riace, dei Greci e delle loro colonie erette nella terra brutia. La scuola è finita e loro sono in vacanza! Sospendono Virgilio, Omero e Seneca. Cassiodoro e Ovidio, per vivere all’insegna della spensieratezza assoluta, privilegiando, quantomeno all’inizio della stagione, percorsi affrancati da obblighi intellettuali.
Il sole picchia sulla spiaggia deserta e gli ombrelloni sonnecchiano scossi da leggeri aliti di vento. Anche l’uomo seduto sotto l’unico ombrellone aperto sonnecchia. Il bagnino chiude le sdraio vuote e le poggia di fianco l’un l’altra, le allinea diligentemente seguendo uno schema predefinito che non si scosta minimamente dagli altri insediamenti balneari limitrofi. Se non fosse per la varietà di colore, che distingue gli insediamenti l’uno dall’altro, sembrerebbe di essere in un unico stabilimento balneare chilometrico.
Ma, quanto prima anche qui sarà la stessa cosa –dice la signora all’amica- pare che una società del nord abbia messo gli occhi su questo posto e poi, addio spiaggia libera! Neanche questo metro quadrato di spiaggia ci lasceranno! – E accende l’ennesima sigaretta con stizza- Ha lineamenti ben disegnati la signora petulante: naso piccolo, occhi leggermente a mandorla, capelli curati… Il reggiseno copre appena i capezzoli irti, anzi sembra che siano loro a puntellare la stoffa sottile memori di un antico pudore.
Il corpo, color ambra, vive attimi propri: con estrema delicatezza, le dita delle mani ben curate tirano giù le spalline del reggiseno, infilano tra i glutei il microscopico slip e ungono con un intruglio arancione quella parte di territorio intimo appena scoperto. Più in là, poco discosti, due fanciulli giocano sulla battigia. Il maschietto lancia pietre nell’acqua, la ragazzina impasta della sabbia fine, l’appallottola e tenta d’infilargliela nel costume. Tra urla e risate cadono in acqua. Gli schizzi infastidiscono le due bagnanti che atterrite irrigidiscono i muscoli.
Noo i capelli nooo ho fatto cinque ore di fila dal parrucchiere nooo basta! Samantha! Thomas! Smettetela!, basta ho detto basta!, non schizzateeee! Se v’acchiappo… Buon giorno Cavaliere! Ragazzi!, smettetela che bagnate il Cavaliere…
Ma il Cavaliere, per tutta risposta, alza la mano e prosegue. È taciturno oggi il Cavaliere! Solitamente scambia convenevoli, racconta qualche aneddoto; invece, oggi, cammina lentamente sulla battigia con la testa bassa. Immerso nei suoi pensieri osserva i suoi piedi comparire e scomparire nei giochi d’acqua e sabbia. L’orma dura un attimo. L’abbraccio molle dell’acqua avvolge i piedi, cancella i segni e rilassa i nervi. Il moto è simile alle nenie tribali propiziatorie, quando, in cerchio, le tribù danzano seguendo lo sciacquio del bastone della pioggia agitato dagli sciamani sulla terra arida dell’Africa. Sì, lui è stato anche in Africa. L’odore acre dei carri impregnati del sudore di uomini e animali è una sensazione ricorrente. Gli ritorna alla mente spesso, specie quando vede alcune scene in tv; ma ora, quell’odore acre e pungente gli penetra davvero nelle narici.


La carretta del mare si è spiaggiata all’alba. Oltre la piccola duna, alla foce del Beltrame, pochi stracci abbandonati testimoniano il passaggio furtivo dei profughi. E, tra le povere cose disseminate sulla spiaggia un pezzo di legno, grossolanamente sbozzato, attira la sua attenzione. Lo raccatta. Lo rigira tra le mani mentre ne valuta la consistenza: è pesante! Le linee degli occhi e della faccia sono incavate ad eccezione del naso e delle grossa labbra che sbalzano di poco. Uno scudo a forma di uovo istoriato protegge il corpo.
Gli alti tigli sfiorati dal vento agitano lievemente i rami; le foglie vibrano; i tronchi flessibili ma fermi sembrano cullare pensieri antichi nell’azzurro del cielo. La scenografia avvolgente dello spettacolare teatro naturale accoglie creature libere, chiassose. Il coro degli uccelli, delle cicale e dei grilli è infastidito da un miagolio sommesso. Non segue il ritmo naturale del coro: è un linguaggio a sé, estraneo e lontanissimo dalle spensierate melodie agresti. Il cavaliere tende l’orecchio; s’avvicina alla fonte e, oltre il cespuglio, un fagottino di stracci bagnati sussulta affianco al corpo inanimato di un adulto.

Il cucciolo d’uomo piange! Accasciato, il piccolo, stringe la testa dell’anziano naufrago. Gli accarezza il volto mentre ricompone i capelli stopposi che lo ricoprivano. Non può fare altro! È impotente davanti allo scempio di vite disseminate tra le misere cose che possedevano. Rivolge lo sguardo verso il nuovo arrivato: rivoli di lacrime solcano le sue gote paffute. Ha occhi celesti; riccioli neri e pelle d’alabastro il piccolo naufrago.
Il cavaliere urla verso la spiaggia il suo grido d’aiuto. In pochi attimi, i bagnanti diventano spettatori attoniti di quel che resta di un esodo della speranza.
Povero piccolo chissà chi sono i genitori. Vieni vieni …andiamo… no no …portate un po’ d’acqua… chiamate l’ambulanza… il 113.
Nel parapiglia generale, il bambino passa di braccio in braccio. Le signore lo coccolano nel tentativo di calmarlo. Lui si dimena. È terrorizzato! Non vuole abbandonare la sua gente, i suoi cari lì su una terra sconosciuta.
La figlia di un venditore ambulante, uno dei tanti che percorrono le spiagge per qualche centesimo, anche lei con la cassettina di ninnoli, dice qualcosa e sorride al piccolo naufrago. Il bimbo si calma. La signora, sollevata, allenta la presa, lo lascia con la bimba e va a curiosare altrove.
Gli ululati delle sirene si fanno sempre più distinte. Il suono diventa pungente e,in una nuvola di polvere, appare una macchina del pronto intervento.
Gli uomini della polizia si danno subito da fare: allontanano i curiosi e transennano con del nastro bianco e rosso la zona.
Il cavaliere è il primo ad essere sentito dalle forze dell’ordine. Arriva anche l’ambulanza. I sanitari constatano amaramente che non c’è più nulla da fare e lo trasmettono alla sala operativa. No no aspettate, interviene una ragazza, c’è un bambino… Dov’è il bambino? Il bambino dagli occhi celesti color cielo con quei riccioli neri, la pelle d’alabastro… dov’è?

Spiaggia di Caminia, ore 18,30
La ragazza col motorino, quella dell’inizio, ricordate?, è puntuale: parcheggia e s’incammina verso la piazzetta.
Al bar del Blanca, seduti sotto un gazebo, alcuni ragazzi cazzeggiano. Il mega schermo trasmette musica life.
Ei ragà come ve bbutta oggi stò a pezzi non ho chiuso occhi mi madre che rompe che devo dormì de giorno a solita piattola che ppalle ‘ste mamme. Baci baci smack smack… lo avete saputo che hanno riaperto il Tempio di Atlantide? Nooo daveru Allora tutti al Tempio stanotte…
Però, quanto so’ affettuosi ‘sti ragazzi èh? –commenta un’anziana signora che osserva la scena dal suo terrazzino- e poi dicono che non hanno valori che i ragazzi hanno perso ogni voglia di vivere e pensano solo a divertirsi nelle discoteche. Guarda con quanto affetto si salutano, si abbracciano con trasporto… Nonna nun stà a dì fregniaccee tu manco li conosci…
Sul mega schermo del Blanca un’edizione straordinaria del telegiornale interrompe l’esibizione del cantante: coppie di anziani salvati in extremis dalla morte… …proiettili all’uranio impoverito e l’uso di utensili contaminati la causa delle morti sospette nella missione di pace… Le immagini del disastro sono più eloquenti delle parole del bravo cronista: ammassi di mattoni, ferri contorti, mobili maciullati in bilico sui solai dimezzati e, tra le macerie, ragazzi sporchi che raccattano qualcosa di utile.
Ragazzi di ogni età, se ancora si possono definire ragazzi quando sono costretti a guadagnarsi la vita come delle persone adulte, scavano tra le macerie in cerca di cibo e che non esitano ad arraffare generi di qualsiasi tipo da barattare.
La macchina da presa circoscrive l’inquadratura; zumma su un esserino piccolo, scalzo, che saltella tra le macerie: si ferma e scava. L’operatore indugia con la telecamera su di lui: fa un primo piano. L’esserino, si volta, si passa il dorso della mano sugli occhi e spalanca due spicchi di cielo color celeste. Sorride all’operatore e continua a scavare in cerca di qualcosa, per lui importante.

Baastaaaa!!! Basta con queste stronzate vogliamo musicaaa cambiate canale buuuuu –urlano i ragazzi-


Inizia ad imbrunire ed il cielo si carica di nuvole. Qualche goccia cade violenta sul coro di voci. – niente paura ragà è il solito acquazzone estivo mò passa.
Gli ultimi bagnanti raccattano gli asciugamani e corrono verso la tettoia del lido. La pioggia cade violenta. Qualcuno corre a rifugiarsi in macchina.
Povera gente! Pensa se piove anche da loro: danni su danni. Il tempo a volte è inclemente. Quando la butta non risparmia nessuno; se c’è un riparo a disposizione ti copri altrimenti…
D'altronde, non è la natura a provocare le guerre, al massimo ti provoca un terremoto, ma anche le scosse sismiche si possono prevenire: basta un po’ di buon senso e onestà nel programmare e costruire gli insediamenti urbani…
Ricordo il terremoto di Reggio Calabria del 1908, più che un ricordo vero e proprio è un sogno. –dice un signore avanti negli anni- mio padre me ne parlava spesso. Reggio e Messina sono zone a rischio e lì devono stare molto attenti! Mio padre era un giovanotto a quei tempi e aiutò i suoi paesani, qualcuno lo ospitò anche. Quello che lo angustiava, e me lo ripeteva spesso, era di non essere riuscito a salvare un ragazzino piccolo. Lui, papà, sentì una vocina leggera leggera provenire da sotto un cumulo di macerie; si diedero da fare in molti ma quando lo liberarono…: era maciullato!, solo la faccia aveva intatta, neanche un graffio: gli occhi aperti, sereni, di un colore celeste brillante con dei riccioli neri che gli incorniciavano un viso bianco e roseo, sembrava di porcellana tanto era bello…
Il cielo è cupo. Le nuvole hanno rovesciato il fardello d’acqua ma ancora stanno lì, stazionano sulle colline del golfo di Squillace. Ai ragazzi poco importa!, hanno deciso di trascorrere la notte al people; la discoteca è a pochi minuti da Caminia; 10 km, direzione Catanzaro. Oppure al cafè solaire sul lungomare di Soverato.
non piove più da qualche ora: le famiglie sono rientrate nelle rispettive case e i ragazzi continuano a valutare come e dove trascorrere la notte. Organizzano le macchine, l’ora e il luogo dell’incontro. Mezzanotte: ci sono tutti tranne Sabry. Jenny le manda un sms. Passano i minuti. Sabry arriva con un ritardo di un’ora abbondante. ‘Si cazzi dovrebbero ‘ncomare per legge tutti i genitori che rompono i coglioni!, perché non stai a casa dove vai con chi sei? uffa che rottura. Allora!, si và? tutti in macchina viaaa…
Il falò illumina la spiaggia. Le pigne raccolte nella vicina pineta scoppiettano. Frizzanti palline di fuoco brillano per pochi attimi, danzano nel buio e poi si spengono cadendo.
Cori stonati imbrogliano le parole originali del testo.
Risate, miste ad acuti urli in falsetto coprono le corde della chitarra. Qualcuno fuma. Aspira e passa la sigaretta. L'odore dolciastro si spande nell'aria. Qualcuno tossisce, qualcun'altro ride. Alcuni si rincorrono. Sbocciano alcuni amori. Baci appassionati, scambiati senza remore davanti agli amici inclementi che esternano ilarità giocosa e chiassosi fischi d'incitazione.
La luna piena si riflette nelle acque calme dello jonio. La sua luce pallida rischiara qualcosa. Lentamente la macchia si fa più nitida: sembra una barca! No è un gommone grande. No è una zattera, sì una zattera alla deriva. Ma c'è qualcuno là sopra. Guardate si buttano in acqua. Improvviso, un faro illumina la zona. Nessuno può sfuggire. I mezzi della capitaneria di porto controllano i clandestini. Uomini e donne, bambini e qualche anziano vengono issati a bordo delle motovedette mentre un elicottero perlustra dall'alto. I naufraghi sono spossati. Ringraziano e chiedono aiuto in un italiano stentato. Il capitano chiede notizie. Nessuno capisce o sa dare risposte. Non si conoscono gli scafisti; forse sono nascosti tra i naufraghi oppure sono scappati dopo averli trainati fin sotto la costa. Trasmette il tenente per radio. La solita storia!
Sguardi carichi di paura invocano aiuto; si rivolgono speranzosi ai salvatori. Le madri stringono a sé i bambini e le poche cose di proprietà. Gli uomini sono dall'altra parte, con gli anziani e osservano. Osservano guardinghi ma fiduciosi.
Il capitano ha l'ordine di non farli sbarcare fino a nuovo ordine. Ma loro non lo sanno. Sperano che le loro sofferenze siano alla fine. Hanno bisogno di cure fisiche e morali. Ma nella loro estrema dignità, aspettano silenziosi.
Passano le ore. Le fiamme del falò sono basse. I ragazzi guardano in direzione dei naufraghi. Anche loro aspettano di vederli da vicino; aiutarli a scendere. Parte della comitiva organizza l'accoglienza procurando beni di prima necessità: acqua, pane, biscotti, latte, chiesti e donati dai commercianti in attività vicini allo sbarco. Hanno raccolto un bel po' di roba e aspettano.
L'aurora li trova tutti lì, naufraghi e soccorritori. Fermi nello stesso punto. I ragazzi sulla spiaggia attizzano il falò: il freddo della notte si è fatto sentire; sono stanchi ma non vanno a casa. Parlano, si scambiano opinioni:
Chissà poverini quanto avranno sofferto... ma quale sofferto!, quelli vengono qua a rompere le palle a noi, mio padre dice che da quando ci sono loro non funziona più nulla: il commercio non tira perché loro offrono roba che fa cagare a pochi centesimi e la gente pur di risparmiare se la compra; li trovi dappertutto nei cantieri edili, nei campi a raccogliere pomodori... Sì è vero!, ma sai quanto sono pagati? Lavorano 10, 12 ore per neanche venti euro al giorno! Sono impiegati nei lavori più umili e faticosi. I nostri imprenditori li trattano come trattavano noi Italiani all'estero. Ho sentito storie di emigranti che hanno sofferto ogni tipo di vessazioni in Svizzera, Germania, America, Argentina e persino in Brasile. Il dopoguerra è stato un periodo triste per i nostri padri, come lo è oggi per questi poveri cristi che non hanno di che sfamarsi.
Il sole inizia a scaldare l'aria. Qualcuno desiste:
Sciiao ragà vado a casa che sennò chi li sente i miei fatemi sapere, ci sentiamo... ssì vabbè sciaoo.
Intorno alle 9, la spiaggia si anima: famiglie che scendono a mare e ambulanze pronte per eventuali emergenze.
Il battello si muove. Il comandante ha ricevuto l'ordine di accompagnare i clandestini nel centro di accoglienza di S. Anna, nei pressi di Crotone. La notizia si sparge a macchia d'olio. I profughi confabulano. Il più anziano chiede chiarimenti. Qualche giovane si butta in mare; molti lo seguono. L'acqua ribolle sotto gli occhi attoniti delle donne e dei bambini rimasti sul battello.
Il comandate parla al megafono: tranquilli! State tranquilli! Vi accompagniamo in un centro di prima accoglienza. Non sarete rimandati indietro. State tranquilli. Salite sulle scialuppe! I più forti riescono ad arrivare a terra; e lì, in braccio alle forze dell'ordine che, prestate le prime cure, sono radunati sui pullman diretti a Crotone.

martedì 23 marzo 2010

il volo: nella filmografia di Wenders e negli atti solidali di Loiero e dei calabresi



Sì!, tra chi respinge in mare zattere cariche di bambini, donne, anziani e uomini disperati alla ricerca di un po’ di normalità, preferisco decisamente le braccia aperte di chi accoglie, memore dell’ambage dei padri costretti a lasciare le famiglie per cercare fortuna e accettare lavori umili pur di mandare pochi spiccioli a casa.

Chi ama veramente non getta in bocca ai pesci persone disperate. Persone costrette alla morte certa se costretti a tornare nei luoghi d’origine.
Ecco, questo ha fatto il cosiddetto partito dell’amore che governa oggi l’Italia. Un partito composto di gente crudele che veste panni d’agnello per imbrogliare gli elettori incerti. Promette e smentisce quanto proclamato nelle campagne pubblicitarie di bassa politica.
Il loro concetto di democrazia è limitatissimo: o sei con me e ti tutelo oppure sei nemico e ti annullo!
Per ultimo, inveiscono contro chi smentisce, giustamente visto la metratura della piazza, il milione di manifestanti enfatizzato dall’organizzatore della festa dell’amore; lo stesso incappato nelle attenzioni della giustizia inerenti alle indagini sui lavori di estrema urgenza gestiti da Bertolaso: Verdini.

Ma lasciamo da parte questi soggetti e concentriamo l’attenzione su qualcosa di serio: il messaggio dell’accoglienza che diventa dato di fatto reale in Calabria e breve film, appena mezz’ora di visione. Un film sull’integrazione che Wim Wenders gira in Calabria nei paesi ripopolati da rifugiati africani, curdi, afgani, palestinesi accolti a Badolato fin dai primi anni '90, un piccolo centro in provincia di Catanzaro, che anni addietro, provocatoriamente fu messo in vendita dagli amministratori comunali per mancanza di cittadini.

Badolato, Riace, Caulonia, la Calabria tutta è luogo adottivo per quanti arrivano dal mare per lenire le ansie e trovare pace; e nel film in 3D di Wenders si evidenzia un mondo naturale e umano tutto ciò, grazie anche alla maestria di Ben Gazzara, Luca Zingaretti, al bravissimo Giancarlo Giannini che ha prestato la voce a Ben Gazzara nel ruolo di primo cittadino; ai neofiti Salvatore Fiore e Ramadullah Ahmadzai, il bambino cittadino di Riace, nel film e nella realtà che durante le riprese ha detto a Wim Wenders:

“È molto bello quello che stai facendo. Ma io sono venuto qui per te. Adesso, se sei una persona seria, devi venire tu a Riace, al mio paese”. Queste parole, dette a Wenders sulla spiaggia di Scilla dal ragazzo afgano impegnato nel film, hanno toccato la coscienza del regista e l’hanno indotto a cambiare la sceneggiatura, trasformare una fiction di pochissimi minuti, 4 iniziali, in testimonianza artistica, destinata a levare il marchio di clandestinità e conferire loro una cittadinanza.

Ecco, tra le due correnti di pensiero preferisco, con assoluta convinzione l’accoglienza! Esternazione di amore solidale per i più deboli attuata concretamente dalla giunta regionale calabrese guidata da Agazio Loiero che, tra l'altro, ha coprodotto, insieme alla fondazione calabria film commission e Technos produzioni cinematografiche, con il contributo del comune di Badolato, il film di Wim Wenders, il volo; da un'idea di Eugenio Melloni.

martedì 28 aprile 2009

il graffio dell'aquila, racconto breve sull'essere writer

racconto breve. tutti i diritti riservati ©mario iannino
aore12

Il graffio dell’aquila

Le strade vuote sono solo un ricordo, come pure la familiarità dei volti che s’incontravano un tempo durante la passeggiata. Ora, i “quattro passi per incontrare gli amici” sono rimpiazzati dallo shopping frenetico e le strade cittadine sono il luogo d’assedio di un intenso esercito d’acciaio, rumoroso e arrogante. Le macchine invadono le corsie, i marciapiedi e persino gli scivoli per i disabili. Mezzi meccanici e dissuasori ostruiscono l’accesso dei negozi, delle case… E gli incroci?, gl’incroci sono diventati punti nevralgici di improbabili affari: gente di tutte le razze aspetta il rosso per tendere la mano, lavare il vetro o offrire fazzoletti di carta!

La vecchia fisarmonica ha una voce flebile; è quasi un lamento impercettibile. Mi accorgo della presenza dell’uomo dall’ombra che mi butta addosso. Alzo lo sguardo: sarà alto un metro e sessanta; cicatrice sulla guancia destra e capelli crespi ossigenati. “Dare tu kualcosa pe manciare crazie”. Ripete con voce roca il miserabile, a noi, benestanti automobilisti italiani. A dire il vero sono pochi i finestrini che si abbassano e le mani che sbucano con qualche moneta per la ragazza che agita stancamente il cestino della questua.
Alla mia destra, il conducente della piccola cilindrata freme; scarica la sua vitalità sui comandi del mezzo meccanico personalizzato all’inverosimile:
L’egocentrismo giovanile contamina gli oggetti; li modifica secondo un’intima estetica, che, a primo acchito, può sembrare dissacrante, priva di leggi ma non lo è! La giovane esperienza legittima una filosofia di vita che li uniforma tutti; li rende somiglianti al proprio sentire, li correda di simboli e i loro feticci diventano l’appendice naturale di una personalità plurale.
Nel caso in questione, il carattere del singolo si manifesta attraverso i colpi d’acceleratore che fanno a gara col volume dello stereo, la grinta, i tatuaggi ed i capelli sparati. Meglio ignorarlo! Dirigo l’attenzione verso il semaforo. Oltre la luce rossa, dall’altra parte della strada, la piazzola del bus è invasa da calchi di gesso dozzinali e piante sempreverdi a dieci euro. Il mercante di statue parla col venditore di piante. Sgasate rabbiose sollecitano il capofila ancor prima che scatti il verde. Le moto impennano. Scatta il verde. Ingrano la prima. Il serpentone d’acciaio, di cui io faccio parte, fa pochi, pochissimi metri, giusto il tempo d’oltrepassare l’incrocio e scrasc s’arresta. La signora, dopo il primo attimo di smarrimento, reagisce con forza. Estrae il telefonino e spegne il motore, determinata a non spostarsi fino all’arrivo della forza dell’ordine. I clacson impazziscono. Le macchine contromano impediscono ogni tentativo di manovra. Non rimane che aspettare! L’ingorgo aumenta. Qualcuno scende dalla macchina e s’avvicina al luogo dell’incidente. Dal nulla, spunta un nugolo di ragazzini minuti. Il più piccolo arriva appena al finestrino; si alza sulle punte e bussa al vetro. Fa tenerezza. Nonostante ciò, non abbasso il vetro. Lo osservo mentre disegna cerchi concentrici sul finestrino: le sue unghie contornate da un velluto nero scivolano sulla superficie. Mi sorride! Si gratta i capelli arruffati; strofina la manica sfilacciata sulla bocca e passa oltre. Lo seguo con gli occhi sgattaiolare tra le macchine. Di tanto in tanto si gira, guarda indietro. Attraversa, e ripete le stesse movenze sull’altra corsia. Ormai il traffico è intasato. Il piccolino, si affianca ad uno più grande; gli sta dietro, chiede qualcosa, poi lo abbandona e riprende a grattare con la manina sui vetri delle macchine. Il venditore di statue indica un percorso alternativo.
Alcuni automobilisti imboccano una stradina laterale non asfaltata e, dopo pochi minuti, ricompaiono qualche metro oltre l’incidente. Seguo il loro esempio. La macchina saltella; le ruote sprofondano nelle buche salgono sulle pietre torcono i bracci; ed io, sballottato da una parte all’altra, faccio fatica a tenere lo sterzo. Qua e là, quasi buttate a caso, lungo il precorso accidentato sorgono delle costruzioni in lamiera e mattoni. Un ruscello putrido attraversa le baracche popolate da marmocchi; qualche cane, un paio di capre e due asini. La stradina finisce davanti l’ultima casupola poggiata al muro di pietre ingabbiate nella rete metallica. Faccio retromarcia; posiziono la macchina, ingrano la prima e mi blocco: un enorme cane rabbioso, sbucato da chissà dove, ostruisce il passaggio. Lui, la bestia, abbassa il muso, digrigna i denti e mi punta. Do gas lentamente; cerco di aggirarlo. Svolto dietro la baracca. Giro l’angolo: cinque viuzze tutte uguali si aprono a ventaglio. Ne prendo una a caso, confidando nella buona stella. Lo scenario non cambia: rottami disseminati dappertutto, carcasse di macchine, lavatrici, ferrivecchi, baracche e la belva che digrigna i denti sempre davanti a me. Le donne sull’uscio mi scrutano diffidenti. Un uomo fa cenno di fermarmi. Freno; abbasso il vetro e: “Cerchi qualcuno?” “No, credevo di sbucare da qualche parte oltre l’ingorgo ma mi sono perso!” il villaggio si anima. Una marea di marmocchi accerchia la macchina. Una donna fa segno che c’è una gomma a terra. Cerco il cane: non lo vedo. Scendo. I bambini m’indicano la ruota. Impreco. Mi guardo attorno diffidente. Apro il cofano. L’uomo m’interroga nuovamente, ma questa volta in dialetto: A sai cangiara? (1) –e senza aspettare risposta, intima: Totò provvìda! (2) Prontamente, Totò, esegue gli ordini. Il cane abbaia; i bambini lo trattengono. L’uomo lo zittisce-.

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