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venerdì 30 ottobre 2009

nevicata, Aniceto Mamone, pittore calabrese


©archivio M.Iannino


Le strade che portano nell’entroterra calabrese sono conformate tutte allo stesso modo: curve, tornanti, brevi rettilinei contenuti in una stretta lingua d’asfalto. La viabilità è contenuta; pochi gli automobilisti che percorrono le vecchie strade provinciali. L’esistenza quieta delle cose fatte
dall’uomo e dalla natura è poesia. Poesia visiva che il pittore trasfonde sulla tela con sapienza e maestria. Aniceto Mamone è stato un pittore genuino; non amava né rincorreva le velleità. La sua natura buona si rispecchia nei dipinti rurali: le nevicate di un candore disarmante; i vecchi casolari di campagna; le marine. In ogni dipinto c’è impresso il carattere del luogo contaminato dall’umana sofferenza e dalla gioia. La semplicità pittorica con la quale Nino sviluppa le sue tele è disarmante: pochi i momenti di ripensamento e d’indugio. Lui lavora di getto; la sintesi espressiva racchiude insegnamenti impressionisti.

giovedì 29 ottobre 2009

le stagioni di Aniceto Mamone, pittore calabrese



Le stagioni di Aniceto Mamone, pittore Calabrese

La convenzione spinge a scandire il tempo e differenziarlo in stagioni.
©archivio M.Iannino

In natura, le stagioni si sono stancate di danzare per l’uomo e traghettarne le membra verso temperature differenti con dolcezza. Ora il girotondo è imprevedibile: caldo freddo caldo vento pioggia neve caldo freddo.
Primavera e autunno sono inesistenti nell’Italia meridionale.
In Calabria la bizzarria dell’escursione termica induce a dismettere gli abiti estivi intorno alla fine di ottobre/novembre per riprenderli immediatamente.
Giornate assolate in novembre, dicembre. Cielo plumbeo a marzo. Caldo estivo da maggio a ottobre.
I paesaggi innevati, le festività del Santo Natale caratterizzate dal freddo pungente sono un ricordo lontano. Ricordo che rivive nelle cartoline, nelle fotografie e nei dipinti di Aniceto Mamone.
Aniceto Mamone, con estrema sensibilità visualizza poetici particolari. I soggetti cari al suo animo sono le terre di Calabria. Dal mare ai monti; Aniceto, Nino per gli amici, segue il passaggio della natura. Ne traccia le caratteristiche peculiari. La sua tavolozza addolcisce, nasconde o evidenzia le asperità, le infiorescenze della natura nel rigoglio più alto.
Aniceto ama la Calabria. Il suo testamento poetico lo testimonia! Nino ha impresso poetiche indelebili su tele naif, a volte infantili; sinceramente infantili secondo la terminologia intimista che esprime, senza falsi pudori, quanto ha in animo un adulto. La sua tavolozza mostra poetiche genuine.
Nei tratti e nelle campiture cromatiche è vivo il sentimento d’amore per la natura, la terra; gli abitanti. Tutto ciò rivive nei suoi dipinti.
Lui, Aniceto Mamone ha concluso l’ultima stagione della sua vita ormai da qualche anno ma è ancora presente in famiglia per l’esempio educativo cha ha saputo infondere e nei ricordi degli amici, per il lavoro e l’onestà intellettuale delle sue azioni condensate nei lavori artistici, nei quali vive ancore.

giovedì 4 giugno 2009

la Catanzaro di Aniceto Mamone pittore Calabrese


©archivio M. Iannino
una veduta della Catanzaro di Aniceto Mamone

La moglie di Aniceto ti manda questo! …

E' come averlo qui!

Esclamo davanti all'olio su tela del ’97 che raffigura uno scorcio della Catanzaro vecchia. Quella Catanzaro che tanto amava il mio caro amico pittore Nino.

Il suo studio era situato nel rione Fondachello; per arrivarci si dovevano salire dei gradoni in pietra…

Ricordo la sua modestia. Ma andiamo per ordine:

Nino era il più anziano del gruppo; la sua esperienza era al nostro servizio: suggeriva soluzioni con estremo garbo nelle estemporanee.

Partecipavamo alle manifestazioni organizzate dai vari enti per il gusto di stare insieme, anche se a volte si andava via con l’amaro in bocca per come finivano le premiazioni, ma quando qualcuno di noi era premiato la festa si prolungava.

Lui era simpatico nel raccontare barzellette. Minimizzava ogni problema che la vita poneva. Minimizzò anche il suo, di problema. Eppure era ammalato da tempo.

Sul retro della tela leggo:
certificato di autenticità
pittore Aniceto Mamone
artista inserito nei seguenti cataloghi:
1978, bolaffi
1974, quadrato
1984, poeti in europa
1981. acc. Italia…

Tornò al paesaggio dopo una breve parentesi di ricerca. Amava i colori puri, tenui e la costruzione semplice. Rispecchiava il suo essere uomo: Era un carissimo, grande amico.

(mario iannino)

martedì 28 aprile 2009

presentazione del romanzo breve: il graffio dell'aquila


Il graffio dell'aquila è un racconto ambientato nella cultura hip hop. E' l'incontro tra un borghese e la realtà dissacratoria dei writers. Una realtà che, all'inizio appare degradata, invece fa trovare l'amore...

il graffio dell'aquila, racconto breve sull'essere writer

racconto breve. tutti i diritti riservati ©mario iannino
aore12

Il graffio dell’aquila

Le strade vuote sono solo un ricordo, come pure la familiarità dei volti che s’incontravano un tempo durante la passeggiata. Ora, i “quattro passi per incontrare gli amici” sono rimpiazzati dallo shopping frenetico e le strade cittadine sono il luogo d’assedio di un intenso esercito d’acciaio, rumoroso e arrogante. Le macchine invadono le corsie, i marciapiedi e persino gli scivoli per i disabili. Mezzi meccanici e dissuasori ostruiscono l’accesso dei negozi, delle case… E gli incroci?, gl’incroci sono diventati punti nevralgici di improbabili affari: gente di tutte le razze aspetta il rosso per tendere la mano, lavare il vetro o offrire fazzoletti di carta!

La vecchia fisarmonica ha una voce flebile; è quasi un lamento impercettibile. Mi accorgo della presenza dell’uomo dall’ombra che mi butta addosso. Alzo lo sguardo: sarà alto un metro e sessanta; cicatrice sulla guancia destra e capelli crespi ossigenati. “Dare tu kualcosa pe manciare crazie”. Ripete con voce roca il miserabile, a noi, benestanti automobilisti italiani. A dire il vero sono pochi i finestrini che si abbassano e le mani che sbucano con qualche moneta per la ragazza che agita stancamente il cestino della questua.
Alla mia destra, il conducente della piccola cilindrata freme; scarica la sua vitalità sui comandi del mezzo meccanico personalizzato all’inverosimile:
L’egocentrismo giovanile contamina gli oggetti; li modifica secondo un’intima estetica, che, a primo acchito, può sembrare dissacrante, priva di leggi ma non lo è! La giovane esperienza legittima una filosofia di vita che li uniforma tutti; li rende somiglianti al proprio sentire, li correda di simboli e i loro feticci diventano l’appendice naturale di una personalità plurale.
Nel caso in questione, il carattere del singolo si manifesta attraverso i colpi d’acceleratore che fanno a gara col volume dello stereo, la grinta, i tatuaggi ed i capelli sparati. Meglio ignorarlo! Dirigo l’attenzione verso il semaforo. Oltre la luce rossa, dall’altra parte della strada, la piazzola del bus è invasa da calchi di gesso dozzinali e piante sempreverdi a dieci euro. Il mercante di statue parla col venditore di piante. Sgasate rabbiose sollecitano il capofila ancor prima che scatti il verde. Le moto impennano. Scatta il verde. Ingrano la prima. Il serpentone d’acciaio, di cui io faccio parte, fa pochi, pochissimi metri, giusto il tempo d’oltrepassare l’incrocio e scrasc s’arresta. La signora, dopo il primo attimo di smarrimento, reagisce con forza. Estrae il telefonino e spegne il motore, determinata a non spostarsi fino all’arrivo della forza dell’ordine. I clacson impazziscono. Le macchine contromano impediscono ogni tentativo di manovra. Non rimane che aspettare! L’ingorgo aumenta. Qualcuno scende dalla macchina e s’avvicina al luogo dell’incidente. Dal nulla, spunta un nugolo di ragazzini minuti. Il più piccolo arriva appena al finestrino; si alza sulle punte e bussa al vetro. Fa tenerezza. Nonostante ciò, non abbasso il vetro. Lo osservo mentre disegna cerchi concentrici sul finestrino: le sue unghie contornate da un velluto nero scivolano sulla superficie. Mi sorride! Si gratta i capelli arruffati; strofina la manica sfilacciata sulla bocca e passa oltre. Lo seguo con gli occhi sgattaiolare tra le macchine. Di tanto in tanto si gira, guarda indietro. Attraversa, e ripete le stesse movenze sull’altra corsia. Ormai il traffico è intasato. Il piccolino, si affianca ad uno più grande; gli sta dietro, chiede qualcosa, poi lo abbandona e riprende a grattare con la manina sui vetri delle macchine. Il venditore di statue indica un percorso alternativo.
Alcuni automobilisti imboccano una stradina laterale non asfaltata e, dopo pochi minuti, ricompaiono qualche metro oltre l’incidente. Seguo il loro esempio. La macchina saltella; le ruote sprofondano nelle buche salgono sulle pietre torcono i bracci; ed io, sballottato da una parte all’altra, faccio fatica a tenere lo sterzo. Qua e là, quasi buttate a caso, lungo il precorso accidentato sorgono delle costruzioni in lamiera e mattoni. Un ruscello putrido attraversa le baracche popolate da marmocchi; qualche cane, un paio di capre e due asini. La stradina finisce davanti l’ultima casupola poggiata al muro di pietre ingabbiate nella rete metallica. Faccio retromarcia; posiziono la macchina, ingrano la prima e mi blocco: un enorme cane rabbioso, sbucato da chissà dove, ostruisce il passaggio. Lui, la bestia, abbassa il muso, digrigna i denti e mi punta. Do gas lentamente; cerco di aggirarlo. Svolto dietro la baracca. Giro l’angolo: cinque viuzze tutte uguali si aprono a ventaglio. Ne prendo una a caso, confidando nella buona stella. Lo scenario non cambia: rottami disseminati dappertutto, carcasse di macchine, lavatrici, ferrivecchi, baracche e la belva che digrigna i denti sempre davanti a me. Le donne sull’uscio mi scrutano diffidenti. Un uomo fa cenno di fermarmi. Freno; abbasso il vetro e: “Cerchi qualcuno?” “No, credevo di sbucare da qualche parte oltre l’ingorgo ma mi sono perso!” il villaggio si anima. Una marea di marmocchi accerchia la macchina. Una donna fa segno che c’è una gomma a terra. Cerco il cane: non lo vedo. Scendo. I bambini m’indicano la ruota. Impreco. Mi guardo attorno diffidente. Apro il cofano. L’uomo m’interroga nuovamente, ma questa volta in dialetto: A sai cangiara? (1) –e senza aspettare risposta, intima: Totò provvìda! (2) Prontamente, Totò, esegue gli ordini. Il cane abbaia; i bambini lo trattengono. L’uomo lo zittisce-.

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