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domenica 12 dicembre 2010

qui la 'ndrangheta non entra! parole contro


Possono le parole arginare il male?


Le parole possono essere convincenti, specie se a dirle, sono persone stimate ma è pura demagogia pensare di bloccare la mafia o organizzazioni simili affiggendo una targa o un cartello all’ingresso del paese o sul portone del municipio. Eppure, in un recente incontro, la commissione antimafia, tramite il presidente Magarò, ha deciso di spedire ai comuni calabresi una targa con la seguente dicitura: Qui la 'Ndrangheta non entra. I Comuni calabresi ripudiano la mafia in ogni sua forma.

All'incontro hanno partecipato il prefetto Vincenzo Panico, il questore Giuseppe Gammino, il colonnello Francesco Iacono (comandante provinciale dei carabinieri), Antonella Stasi nella veste di vicepresidente della Regione Calabria, il presidente della Commissione regionale antimafia Salvatore Magarò, il presidente dell'Atp Luciano Greco, il presidente della Provincia di Crotone Stanislao Zurlo, il capitano Giorgio Mazzoli (comandante della Compagnia di Petilia Policastro), il vicequestore aggiunto Maria Antonia Spartà, il vicesindaco Pasquale Covelli, l'assessore comunale Antonio Carcello e il dirigente scolastico Francesco Gentile.

Stupisce, che persone così addentro, attenti conoscitori delle attitudini delle organizzazioni malavitose, e tenaci servitori dello Stato decidano di sprecare energie e finanze pubbliche per azioni ininfluenti. È risaputo che spesso il malaffare è presente, colluso con l’insospettato, e gestisce in tutta tranquillità le finanze pubbliche, gli appalti; i posti di potere; il lavoro!

L’analisi deve essere condotta verso altri bersagli, quali la cultura e l’occupazione, il salario sociale e il coinvolgimento reale dei cittadini alla vita pubblica.

Gli incontri istituzionali, le commissioni, gli studi dei fenomeni diventano proficui nell’attimo in cui qualcosa muta veramente nell’ossatura dello Stato e della società. Nell’attimo in cui le persone preposte a guidare il cambiamento iniziano a dare il “buon esempio” a essere i primi nella corsa per la solidarietà, la giustizia e la legalità.

Spesso, purtroppo, le commissioni si trasformano in comode poltrone per sistemare il politico trombato, l’amico, lo studioso che osserva da lontano e tesse giudizi e analisi che non hanno riscontro nella realtà.

martedì 30 novembre 2010

codici cavallereschi e devianze etiche

Osso Mastrosso e Carcagnosso secondo una favola romantica dovrebbero essere i padri fondatori del malaffare in Italia.

In base ai racconti folkloristici si tratterebbe di tre cavalieri spagnoli, appartenuti ad una associazione cavalleresca fondata a Toledo nel 1412, che, scappati dalla Spagna per avere difeso l’onore della sorella, portarono nel Mezzogiorno d'Italia quelle che sarebbero divenute le regole della mafia in Sicilia, della camorra in Campania e della 'Ndrangheta in Calabria.

Una leggenda che è servita a creare un mito, a nobilitare le ascendenze, a costituire una sorta di albero genealogico con tanto di antenati.

La sera della strage di Duisburg una delle sei vittime, prima di essere uccisa, facendo bruciare un santino di San Michele Arcangelo con tre gocce del suo sangue, aveva giurato fedeltà alla 'ndrangheta in nome dei tre cavalieri spagnoli Osso, Mastrosso e Carcagnosso. Per la 'ndrangheta i codici e la loro trasmissione sono una ossessione.

Per quante trasformazioni essa abbia subito non ha mai voluto cambiare le modalità dell'affiliazione formale e simbolica. Ma qui siamo in pieno folklore. Una sorta di romantica adesione a dei valori “morali” da parte di giovani che affrontano i mali sociali. Giovani ingenui strumentalizzati da menti scaltre che non si sporcano le mani con omicidi o andando a lavorare nei campi. I pezzi da novanta vestono e frequentano l’alta finanza. Determinano le sorti delle nazioni. Pilotano notizie e ricchezze. Censurano ma sanno anche indossare la maschera del buonismo populista.

lunedì 11 ottobre 2010

con Gratteri per una società migliore

Il procuratore antimafia di Reggio Calabria Nicola Gratteri, su Radio 24, definisce “politica del giorno dopo” la decisione di mandare i militari a Reggio per rispondere alla criminalità organizzata.

"I militari sono una soluzione? No, assolutamente no, e' sempre la politica del giorno dopo a cui purtroppo i governi degli ultimi venti anni ci hanno abituato". "Bisognava prima coprire gli organici vuoti di migliaia di poliziotti, carabinieri e finanzieri - continua Gratteri -. Prima va fatto l'ordinario, poi se necessaria l'eccezionalità. E' anche una questione di costi. Se arrivano dei militari bisognerà provvedere alla logistica, all'aspetto amministrativo. Se invece trasferiamo stabilmente delle persone non dobbiamo pagare missioni o trasferte. Questi militari avranno bisogno di due mesi per imparare nomi e cognomi, il mese successivo inizieranno a lavorare e il mese dopo ancora saranno riassorbiti pian piano". Gratteri si è detto anche contrario alla proposta di schierare l'esercito nei cantieri dell’A3 Salerno-Reggio Calabria dove si susseguono attentati ai mezzi delle aziende: "Così si può limitare che salti un escavatore ma la tangente è discussa a monte, prima che si inizino i lavori. Se salta una betoniera significa che sono saltati gli accordi, ma la verità èche non esiste un solo chilometro di autostrada in ristrutturazione in cui ogni locale di 'ndrangheta non voglia la sua fetta.
Dalle indagini in corso non c'è un solo chilometro esente da questo problema". E ancora: "Da gennaio a oggi abbiamo arrestato mille 'ndranghetisti e in questo momento ce ne sono liberi 10mila nella sola provincia di Reggio Calabria. Come si fa a dire che la 'ndrangheta è in crisi?".

L’attimo più intenso, Gratteri lo ha toccato quando ha parlato della sua esperienza da calabrese, costretto, nella vita da magistrato, a fare arrestare vecchi compagni di scuola: "Purtroppo erano ragazzi sfortunati, nati nella famiglia sbagliata. Io ho avuto la fortuna di nascere in una famiglia onesta, umile ma di grandi valori morali e mi sono salvato. Se fossi nato in una famiglia di 'ndranghetisti oggi sarei sicuramente un capomafia. Essere della 'ndrangheta non e' una scelta, e' una cultura, una religione, un credo. Ci si nutre di cultura mafiosa fin dalla nascita: quando un bambino di 4-5 anni vede i Carabinieri che gli sfondano la porta di casa per portare via il padre o lo zio trafficante di cocaina, il bambino identificherà lo Stato nello sbirro che gli porta via il padre".
C’è poco da aggiungere! Questa è la verità! Se lo Stato vuole davvero mettere in crisi la criminalità organizzata deve fare una cosa semplicissima: creare posti di lavoro e sviluppare la cultura della legalità intervenendo sulla scuola, l’arte e i processi formativi tout court con i fatti e non coi proclami elettoralistici.

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