Quando si parla di pop art, o
comunque di pittura supportata da concetti intellettualmente evoluti,
l'errore è dietro l'angolo.
Gli esempi degli ultimi anni sono
sintomatici:
Dall'imbianchino che ridipinge la porta
di Duchamp esposta alla biennale del '78 al muratore che
ottura il buco dipinto sulla parete della galleria con tecnica trompe
l'oeil e, per ultimo, in ordine di tempo, la più disarmante è, se si
ragiona sulle motivazioni che dà la donna delle pulizie del suo naturale e conseguenziale gesto di buttare nella
spazzatura alcuni cartoni lasciati durante l'allestimento della mostra barese e per fare ciò cerca e ottiene l'aiuto degli spazzini perché troppo pesanti per lei da conferire nel cassonetto. ( in barese
stretto la donna dice: “... e che lasciano tutto sporco, in
disordine, e poi la stronza sono io che devo mettere tutto a
posto...).
Rimanendo nel campo della pop art,
gli artisti che la praticano si interrogano sul problema della
riproducibilità dell'arte nell'epoca industriale, sul come e se
mantenere il carattere esclusivo dell'opera d'arte, o se invece
conciliare la realtà consumistica con il proprio linguaggio.
Dalle diverse risposte date a questi
interrogativi nacque la diversità di stili e di tecniche tipica
della pop art.
Quindi creazione artistica meccanica;
recupero delle principali avanguardie del Novecento che vanno dalle
provocazioni del dadaismo (che per primo mescolò arte e realtà, ai
collage di foto o immagini pubblicitarie di sapore ancora cubista),
fino agli happening o gesti teatrali, in cui l'artista
crea l'opera d'arte direttamente davanti agli spettatori, lasciando
spazio all'improvvisazione.
Anche se il cartone lasciato
incustodito in galleria, la porta, ready made duchampiano o il buco
ingannatore non è il risultato finale di un happening, chi è
l'artista? L'espositore, l'imbianchino, il muratore o la donna delle
pulizie che hanno posto rimedio alle incongruenze suggerite dalle
rispettive “conoscenze esperienziali”?