Negli anni '50 in Calabria e nel resto d'Italia la maggior parte delle persone non aveva le scarpe, camminava scalza e aveva le toppe ai vestiti.
Nelle famiglie, i vestiti passavano dai genitori ai figli e dai grandi ai piccoli. Non si buttava niente e le donne erano educate ad una sana e responsabile economia domestica. Rattoppavano i vestiti fino a quando il tessuto teneva; rigiravano giacche e cappotti e quando i pantaloni lunghi erano collassati in prossimità delle scarpe si trasformavano in pantaloncini corti per l'estate.
Le poche persone che avevano le scarpe erano ritenute benestanti, “ricche”.
La povertà era misurata dai calli ai piedi e alle mani; dalle toppe sui vestiti; dalla gracilità. Ma, nonostante ciò, il sorriso sulla faccia dei bambini era una caratteristica usuale. Bastava poco per rendere felice un bambino: due legnetti in croce e iniziavano interminabili battaglie con la spada; una verga verde, flessibile, con una cordicella tesa alle due estremità la trasformava in arco; questi i giochi dei bambini degli anni '50 e '60 che si svolgevano per strada o nelle campagne.
Non c'era l'emergenza spazzatura. Non esistevano le buste di plastica; il polistirolo e gli imballi che oggi assediano le strade. E non cerano neanche i cassonetti! Non servivano!
La spesa si faceva al dettaglio in spacci che vendevano baccalà, sarde sotto sale, corde, stringhe, lucido per scarpe, fermagli per capelli, stivali e scarpe; anche la pasta si vendeva sfusa e avvolta in un foglio di carta ruvida, ma c'era chi preferiva portarsi dietro un canovaccio per avvolgere i maccheroni, anche se la maggior parte delle donne la pasta se la faceva in casa. Solitamente il sabato era destinato alle provviste per il pranzo della domenica. La donna di casa, sul tardi impastava la farina e la lasciava lievitare qualche ora nella madia coperta con tessuti di lana e alle prime luci dell'alba, quando il forno era ben caldo, tirava le braci ai lati e infilava le pagnotte. Non c'erano molte panetterie o forni nei paesi e neanche macellerie. Si macellava in occasione delle festività importati qualche agnello o capra e il maiale per le provviste familiari. Uccidere una mucca era impensabile fino a quando questa non si azzoppava o diventava vecchia. Al mucca forniva il latte e tirava il carro. In quegli anni ognuno si sapeva gestire la quotidianità.
Oggi non siamo più abituati e neanche abbiamo i mezzi, o forse non vogliamo riscoprire il profumo del pane appena cotto che pervade la casa; preferiamo andare dal panettiere e se questo chiude cadiamo nel panico. Ma non c'erano neanche tantissime macchine e nelle campagne il mezzo di locomozione era il somaro e non il fuoristrada, il suv che invade i marciapiedi e inquina.
Il somaro era il compagno di lavoro che s'inerpicava su per viottoli stretti e trasportava l'inverosimile anche da solo, una volta imparata la strada.
Negli anni '50 nelle case non c'era l'elettricità. Quindi, non c'era il frigorifero; la lavatrice, la lavastoviglie, il forno elettrico, la televisione e neanche i lampadari. In compenso c'erano molti sogni nell'aria. Uno di questi sogni contemplava la tecnica al servizio dell'uomo e la prima lampadina elettrica che spodestò quella a gas o a petrolio, ne accese altri di sogni, come le falene che ballavano attorno al bulbo e che nelle notti fredde riscaldava.
I sogni sono finiti all'alba, nell'era dell'energia atomica; con la bomba su Hiroshima; i disastri nucleari delle centrali di Chernobyl e di Fukushima, che l'uomo ha voluto impiantare per sopperire al consumo energetico spropositato che gli necessita per mantenere il modello di vita che si è costruito pur sapendo i danni irrevocabili che provoca l'atomo trattato fuori da certi parametri e le contaminazioni ambientali delle scorie prodotte dalle centrali nucleari in assenza di una tecnologia evoluta.
Allora?, tornare all'età della pietra? Certamente no! Basterebbe essere un po' oculati.
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