Pagine

sabato 25 aprile 2009

nei luoghi dell'anima: quattro passi in Calabria

Nei luoghi dell’anima
aore12


©mario iannino

Centodieci chilometri orari; và bene così! Il viaggio è lungo, meglio non forzare il motore. Dice tra sé Vittorio. Oltretutto, deve prestare attenzione al carico. Un carico estremamente delicato, costato anni di travagliato e intenso lavoro. Un lavoro fuori dal normale, esigente, che implica dedizione e onestà intellettuale, doti poco conosciute nella sfera del generico impegno per cui è sbagliato definirlo “lavoro”. Diciamo piuttosto che è un’attività che non lascia alternative anche perché non sei tu a condurla è lei che ti possiede. E Vittorio lo sa bene. A dire il vero, lui, avrebbe fatto a meno d’intraprendere l’ennesimo infruttuoso viaggio, suo malgrado sta lì, a contare le buche e le deviazioni della Salerno Reggio Calabria. Ma, il più è fatto. Ormai è questione di poco. Sta per arrivare alla meta.
“Sì pronto…no sono ancora in viaggio…sì, va bene, ti richiamo appena arrivo”. Pensare che all’inizio non sopportava il telefonino ed ora… “Sì…pronto chi parla? No ha sbagliato …Ah, è lei sì sono in viaggio. Tra qualche ora dovrei essere a Roma. Non si preoccupi a presto”. Click
“Se non mi avesse assillato con le sue telefonate avrei già chiuso da un pezzo con le fiere! Comunque questa è l’ultima!, l’ultimo canto! Poi tumulerò definitivamente teorie e illusioni! Ecco ci sono quasi... Finalmente! Adesso affrontiamo la bolgia del raccordo anulare…i divieti d’accesso, gl’immancabili lavori in corso; il traffico di via Nazionale, Piazza Venezia… Dovrei esserci: eccolo là! Sì è lui”.
“Maestro! Venga da questa parte, venga. Giri a sinistra, oltre il cancello c’è l’entrata secondaria.”
“Grazie! (l’inizio sembra buono! Almeno non sto col patema d’animo dell’intralcio al traffico…)”
“Si accosti ancora un po’…così! A posto! Ben arrivato! Ha incontrato difficoltà nel viaggio?” “No! Grazie. Tutto bene! Comodo questo cortile…anche l’ambiente interno è ben strutturato.” “Sì è una gran comodità! -Incalza il gallerista- Vedrà, qui è diverso. Abbiamo dei clienti esigenti, come le dicevo al telefono; non per invogliarla a venire, d'altronde, stasera se ne renderà conto: i nostri collezionisti hanno il palato fine.” “Non lo metto in dubbio, ma ora posizioniamo i lavori.” “Non si preoccupi Maestro, tra poco arriverà il nostro critico insieme a due operai, sarà lui a curare il montaggio della mostra! Venga, andiamo a mangiare un boccone, ha bisogno di ritemprarsi non vorrà crollare durante l’inaugurazione, spero. Venga! Proprio qua dietro c’è una trattoria niente male, noi ci andiamo spesso…”.

Il rituale si ripete: dopo il lavoro manuale per concretare attraverso il mestiere i suggerimenti dell’anima, Vittorio, si ritrova all’ennesimo appuntamento espositivo non più con l’entusiasmo giovanile ma con l’amara esperienza di chi ha cozzato più volte contro il muro delle lobby pilotate e l’indifferenza della collettività massificata. La realtà quotidiana, quella che fa i conti in tasca, ha avuto il sopravvento, ha sussurrato, urlato, imposto la sua logica, e vittoriosa ha asservito le intelligenze alla cruda indolenza dell’evoluzione tecnologica e mercantile: nel sibilo ringhioso degli affari non c’è spazio per la crescita poetica: è il denaro che conta che rende forti e potenti che muove le platee mondiali e apre a crociate mistificatrici . È ancora presto per la città del sole; è pura utopia caro Fra’ Tommaso! Chissà se mai si avvererà il tuo sogno.



“… Meno male che ci pensano loro a rompere la monotonia…” Commenta rassegnato il gallerista nel chiudere la porta. “Il popolo: motore sociale! In questa settimana, abbiamo subìto mediamente tre manifestazioni al giorno…” Continua; mentre un rumore indistinto, cadenzato dall’eco di ritmi ovattati, accompagna le sue parole. Il rullo scandito a intervalli regolari sui bidoni di latta sovrasta e annulla i suoni. La voce, svuotata di significati, rimbalza nelle cavità del tratto uditivo e ingombra la mente. Ma questo, Vittorio, non vuole dirglielo; è cosciente dell’ininfluenza del suo pensiero, perciò si limita ad annuire.
Il rombo diventa sempre più assordante; si avvicina. A tratti esplode nel forsennato frastuono di bidoni sbattuti rabbiosamente in un crescendo di slogan scanditi dai fischietti, urlati, strombazzati e percossi dal tocco ripetuto dei campanacci. Il fermento delle anime agitate è lì, ingombrante e scomodo; invade le piazze. Quasi orgogliosi del disagio cui sono costretti, avanzano fieri; l’animosità degli scioperanti aumenta passo dopo passo. L’aria si carica di tensione. Il grido di protesta copre ogni altro rumore; diventa palpabile, assume corpo e sembianze specie quando zittiscono per ascoltare i leader. L’oratore tocca con collaudata sapienza le singole emotività: modula le parole; scandisce i concetti; pretende risposte dalla controparte; e quando la fibrillazione è al massimo, la sua voce si alza potente sul boato d’assenso a rafforzare il concetto.

“…Aveva ragione la buon’anima di Goethe allorquando affermava che non v’è cosa più disdicevole, anzi, per essere precisi, più disgustosa della maggioranza che s’incolla per opportunismo, debolezza o ignoranza ai condottieri del momento… L’individuo deve crescere intellettualmente! Così da capire le prese in giro, le promesse settarie… e, poi la pochezza di pensiero causata dal disagio economico contingente, cui è costretto il grosso dell’umanità, è facile preda di strumentalizzazioni. È anche vero che il gioco delle parti…”. Vittorio lo ascolta fiaccamente. Non risponde ai suoi ammiccamenti: preferisce tenere la bocca chiusa e respirare piano: l’olezzo dei rifiuti è asfissiante! Per lui è nuovo il caos nauseabondo in cui è caduta Roma. La sua attenzione è attratta dal linguaggio metropolitano: le lacerazioni stratificate delle affiches pubblicitarie, si affacciano dai muri a proporre, invogliare, sedurre, mentre il corteo dei manifestanti si snoda rumoroso fino a perdersi oltre la gigantografia commerciale che impone, attraverso le gambe della donna che sovrasta spavalda la strada, il collant del successo.
“Anch’io avrei voluto vederla attenta alla crescita intellettuale questa comunione d’anime che è tutto e niente, che rimane pietrificata in eterna stasi, protesa semplicemente a sopravvivere. È simile ad una marea tumultuosa, allo stato attuale, fragorosa, forte e fuggevole. Chissà se mai si pacificherà… -Fa freddo!-” Esclama ad alta voce, quasi a voler zittire i quintali di pensieri amari che affollano la sua mente.
“Ha ragione Maestro, è un freddo pungente e questo venticello lo rende ancora più fastidioso; ma tra poco ci scalderemo davanti ad un bel bicchiere dei colli romani!… Prego dopo di lei.”
La sala contiene pochi tavoli ricoperti da un tovagliato sobrio. È accogliente coi suoi innumerevoli dipinti appesi alle pareti. Una folata d’aria fresca agita lieve gli odori del locale ed accompagna l’ingresso del nuovo avventore.
“Come le dicevo, questo posto è frequentato principalmente da pittori. …Oh carissimo! Vieni! Accomodati. Maestro le presento il nostro esperto d’arte: non si faccia ingannare dalle apparenze, è giovane ma sa il fatto suo”.
“Bene, meglio così, i giovani hanno più entusiasmo. Siediti.”
“Sì, con piacere!, sono passato dalla galleria ed ho visto i lavori. Veramente eccezionali! Superano notevolmente il clone fotografico che visionammo per i cataloghi. Le riproduzioni non danno il senso reale dell’opera. Sono da rifare i cataloghi! Non mi sembra il caso di distribuirli, sarebbe un oltraggio al suo lavoro…è colpa mia! Mi sono fidato dello stampatore. Avrei dovuto controllare con più attenzione le copie, prelevare un campione dallo studio e lasciarlo in tipografia per confrontare…” “Non ti preoccupare saranno in pochi ad accorgersene; stai tranquillo, non cambia niente.” “Sì, ha ragione Vittorio. Non vale la pena agitarsi. Saranno veramente in pochi ad accorgersi dell’alterazione cromatica, comunque non sarà per niente nociva… E poi, la gente, presa dalla visione degli originali, neanche lo guarderà il catalogo. Queste opere sono possenti! Finalmente un vero artista! Uno che dà l’anima nel modo in cui diceva Zola.”
–Interviene il gallerista per tacitare i sensi di colpa del giovane critico-




La storia si ripete; un susseguirsi di discorsi scivolano via come acqua sui vetri. In altri momenti, gli hanno dato la carica, è vero! Sono serviti a fargli portare avanti la sua ricerca poetica. I confronti dialettici sono stati linfa vitale, specie negli anni giovanili. Chissà, forse se avesse tacitato quella vocina interiore da cocciuto bohemien e ceduto alle richieste del mercato qualcosa sarebbe cambiata, ma non è andata così e adesso, Vittorio è stranito. Si sente leggero; una sensazione di vuoto ovattato gli penetra le tempie e lo rende etereo. Osserva tre uomini all’apparenza tranquilli: un giovane critico, un gallerista e un artista di mezza età. Nulla traspare dall'involucro corporeo del terzo commensale a parte la pacatezza nel mangiare. Neppure la bellezza prorompente della donna seduta all’altro tavolo sembra distrarlo. Non distoglie lo sguardo dal piatto neanche quando lei si alza, liscia con le mani il tessuto della gonna sulle gambe e impettita si avvicina al loro tavolo.
“Posso?”
“Alma! Certo che puoi; vieni, vieni accomodati che fai da sola unisciti a noi! Conosci Vittorio Cino oggi ci sarà la sua vernice nella nostra galleria, ci sarai vero?”
“Certo, come potrei mancare ad un appuntamento così importante. Conosco i suoi lavori…-Afferma radiosa puntando lo sguardo carico d’ammirazione su Vittorio- E non solo. Ho letto che è stato invitato a lavorare per una galleria di New York, come mai ha disdetto il sodalizio? Non le piace andare in America?”…

Potrebbe risponderle dicendole delle amare esperienze costipate attraverso il vissuto quotidiano in terra straniera e delle falsità stampate sui giornali da chi scrive per un tanto a rigo, rigirando e rivoltando la merce come fanno i venditori al mercato. Invece, preferisce continuare a mangiare lentamente: infilza una strisciolina d’alice marinata, l’avvolge intorno alla forchetta; la porta alla bocca e mastica con gusto. Perlomeno, questo lascia intendere il suo comportamento assorto e taciturno. Un caso d’ipocondria? Possibile? No! Semplicemente sfiducia accumulata a causa della superficialità con cui la collettività elude i linguaggi dell’anima; nondimeno, in molti, specie nei periodi elettorali, si ergono a mecenati, a sostenitori convinti della cultura; ma cosa intendono per cultura?! Non si è mai capito. Ad essere superficiali, forse, questi signori pensano che basti legare un’opera d’arte ad un evento per purificare lunghi periodi d’oscurantismo assoluto, oppure ricavare spazi per “addetti ai lavori”. O ancora, creare opportunità di vendite clientelari. Non si è voluto capire, invece, che non è l’opera in sé a fare cultura e neanche un presunto movimento ma la condizione sociale in cui nasce e si sviluppa il pensiero creativo come antidoto contro i mali generati dagli “estremismi”, al di là dei voleri personali. Il lavoro artistico, è linguaggio poetico; alimento dell’anima! Detto ciò, è indubbio che lasciarsi andare alla proposizione creativa lontana da una qualsiasi corrente commerciale è utopia infruttuosa. E sì, è faticoso spendere energie per qualcosa d’impalpabile se non è suffragata da un tornaconto tangibile immediato; quella dell’arte o, comunque, della riflessione creativa è una strada scomoda; il più delle volte non ripaga. Allora, meglio lanciare infuocate parole di carta e dirigere le menti verso obiettivi probabili; anzi, certi. Cosicché, dare concretezza ad un’estetica corporale, come un seno al silicone da regalare al diciottesimo compleanno per soffocare i complessi adolescenziali suggeriti dalla pochezza di pensiero della tendenza attuale, diventa una ovvietà endogena. D’altronde, cosa ci si può aspettare dalla società dell’apparire se non la cura dell’involucro esteriore: l’immagine del bello ideale, realizzato nelle sale robotiche della chirurgia plastica e riversato nelle strade della quotidianità in patetiche clonazioni, è il segno del fenomeno contemporaneo che, sublimato nei talk show, induce masse oceaniche a prestarsi a qualsiasi ambiguità pur di emergere e catturare brevi attimi di popolarità! Viviamo nell’era dell’apparenza ed i mezzi di comunicazione di massa ne fanno un punto cardine. Nulla sfugge ormai al grande fratello: il suo occhio condizionante penetra ovunque, proprio come aveva presagito George Orwell nel 1948. I creativi, preavvertono le fasi, le scoperte scientifiche, i linguaggi non perché oracoli ma, semplicemente perché operatori della verità che trascende la materia e assoggetta l’irrazionale alla verve dei Maestri per essere trasformata in espressività artistica. A dispetto del teatrino effimero della vita che vuole mettere in scena le frivolezze, le cose fatue oppure i drammi, quando accadono, esposti sapientemente dai cronisti per tenere alto l’interesse collettivo sull’evento salottiero dello spettacolo.
Nell’evento catastrofico, la massa, si avvicina ai fatti dapprima con timore, poi si avventa sull’accaduto con rancore giustizialista (trovare un colpevole e darlo in pasto tra uno spot pubblicitario e una telenovela è il massimo della goduria “videota”): lo scandalo è sempre sulla poltrona d’onore incoronato dalla cattiveria collettiva. Eppure tutto passa, a dispetto dei mass media e del loro influsso sulla società (o forse è per questo che optano per palinsesti mediocri?), della cosiddetta classe dirigente, di chi è convinto di essere nel giusto e di chi si pone continui interrogativi sul ruolo formativo delle istituzioni per meditare infine sul vero senso della vita.

Qual è, in un simile scenario, il ruolo di chi fa arte? Non nel senso restrittivo del termine, limitato ad una determinata categoria, ma nell'accezione ampia che include tutti gli uomini propositivi, dunque creativi? Si potrebbero riempire pagine di buoni propositi, ma ciò non basterebbe a far girare le cose per il verso auspicato. Allora, meglio agire; lavorare; proporre! L’Artista propone il suo pensiero attraverso le Opere, dove per opere s’intende, oltre al lavoro essenziale che è il risultato finale di un felice ma faticoso travaglio, principalmente il porsi e quindi l’essere nella vita di tutti i giorni nel rispetto totale di ogni creatura ed attento che il suo pensiero abbia come unico fine il bene comune, senza per questo sentirsi un eroe altrimenti sarebbe un fuoco fatuo (e di questi ce ne sono già molti). E allora, di che ti lamenti caro Vittorio? Molti altri, prima di te hanno patito; sii forte, abbi fiducia e unisciti ai nuovi commensali. Confrontati con loro. Senti, apri la mente ai loro discorsi, non sono poi tanto lontani dai tuoi!
“Molti anni fa, vidi su di un giornale di satira politica una vignetta: la matita del vignettista rendeva concreto un pensiero, che a primo acchito mi sembrò blasfemo, in effetti, la ricorrenza della nascita di Gesù era raffigurata in maniera cruda, violenta, e fu la visione di questa violenza visiva che m’indusse a studiare i percorsi artistici della storia dell’uomo; capii come le manipolazioni possono divenire spunto per bagordi e arricchimenti materiali pianificati. Si sa, i festeggiamenti religiosi sono strettamente connessi alle tradizioni e inevitabilmente, sfociano nel consumismo, ma non era questo il dato evidenziato bensì qualcosa di più violento: la vulva di Maria trasformata in una volgarissima mangiatoia a disposizione del bue e dell’asinello. Lì per lì rimasi sgomento; e, quella visione mi ritornò spesso alla mente. In seguito, capii che la crudezza del concetto, in verità, evidenziava un dato reale nelle società opulente; mi spiego meglio: sulla base di un evento sublime, qual è il Santo Natale, un’orda di cinici elabora strategie per vendere a iosa prodotti di prima necessità e fesserie, in barba ai concetti del vivere “cristianamente” la commemorazione della nascita del Redentore, non pensando minimamente a quanti muoiono di fame.”

“Anche la “merda d’artista” di Piero Manzoni è stata, e vuole essere, una profanazione, in questo caso, dell’arte sopraffatta dalla mercificazione che l’accompagna. A ben pensare, l’azione dell’artista è consequenziale ad un dato reale della società; una società malata d’egoismo cronico, protesa ad accumulare solo ricchezze materiali, cosa vuoi che produca?”
“Dobbiamo convenire, quindi, che lo scossone, è necessario per fare chiarezza e ripristinare la verità?”
“La violenza con cui il messaggio è trasmesso diventa fresca e salutare catarsi.”
“Per l’artista concettuale, l’idea è più importante dell’opera. Quando l’artista si avvale di questo tipo di forma espressiva, tutte le decisioni sono stabilite a priori e, l’esecuzione diventa un fatto puramente meccanico.”
“Però, com’è poetico il linguaggio dell’arte infantile: i bambini disegnano e colorano a memoria, cercando di essere realisti e a modo loro lo sono, ponendo in rilievo ciò che più li interessa. Lo spazio e il tempo hanno un ruolo diverso rispetto al valore che dà l’adulto; il mondo del bambino non ha confini precisi, poggia sulla visione del sentimento sacro e primitivo in cui tutto è importante, almeno nel momento in cui lo interiorizza e l’esterna attraverso i disegni.” “Questa mancanza di convenzionalismi, la libertà assoluta con cui si esprimono, hanno ispirato gli artisti “ingenui” della corrente naifs riconducendoli all’arte primitiva. Non ci dimentichiamo che Picasso fece tesoro di quella linea semplice…” “Sì, anche Dubuffet esplorò…”
Vittorio, consapevole d’essere in compagnia di uno sparuto numero di persone amanti della verità, in antitesi alla concezione dell’apparire frivolo nel teatro caduco della vita, insieme al boccone, ingoia anche una strana sensazione di leggerezza. Presta maggiore attenzione alla conversazione, proprio come gli aveva suggerito la voce interiore. Guarda l’ora. Estrae dal taschino il telefonino e “...Ciao come và, tutto bene?…dorme? Dagli un bacino da parte mia! Sì, appena finisce l’inaugurazione torno a casa…Sì anch’io a più tardi ciao.” Ha gli occhi lucidi; chissà, probabilmente anche gli altri si accorgono del suo stato d’animo.
La discussione ha uno iato.
I silenzi sono frammezzati dal rumore soffuso della sala e dai diffusori dell’impianto stereofonico: “...ogni donna ha l’universo in sé..” In altri momenti, Vittorio, avrebbe catalizzato l’attenzione della compagnia con battute sagaci ma, è stanco! Sa bene che spesso le belle parole rimangono tali e la parte materiale, di cui siamo vestiti, si agita inquieta per soddisfare l’elementarità quotidiana del vivere civile.

Vuole porre ordine ai suoi concetti; smettere i panni di persona di gusto raffinato e guardare in faccia la realtà. “Ogni donna ha l'universo in sé…non è possesso ma è la sua femminilità…” ripete suadente la voce dai diffusori. Il brusio della sala, circonda i pensieri espressi dai commensali, tuttavia, le parole degli astanti arrivano nitide alle sue orecchie: “…la ricerca espressiva può avere sviluppi se incoraggiata da una platea attenta” “Gli uomini sensibili non hanno età; più sono grandi e maggiormente soffrono per le storture della vita e simili ai bambini che vedono gli adulti compiere azioni illecite, cadono in uno stato di profonda frustrazione. L’analisi spietata della condizione umana li segue ovunque e sprigionano in loro continui interrogativi; ma vedrai, si sistemerà ogni cosa! D'altronde solo i grandi artisti riescono a penetrare la vera essenza delle cose ed è questa diversità a renderli speciali” -Con chi parla? A chi è indirizzato il messaggio? Avrà intuito i pensieri di Vittorio?- “Parli bene tu, Alma! Allora mi devi spiegare quale meccanismo scatena nelle masse il delirio per una partita di pallone e cosa induce, a volte, le fiumane alla violenza gratuita mentre per le questioni sublimi dell'arte non spendono un attimo del loro preziosissimo tempo. La verità è che basta il volere di un gruppo di potere per innalzare o abbattere un evento culturale, sportivo, di marketing o altro”. “Sei sempre il solito disfattista, Dario! Quando parli così non sembri neanche un conoscitore dell’arte. È vero nell’immediatezza quello che tu dici ma, il tempo aggiusta sempre le manipolazioni strumentali dell’uomo. Voi critici, tutti uguali! Pieni di parole ampollose…brutta razza…per non parlare dei galleristi! Devi sapere che i tuoi colleghi, caro Giulio, mi stanno riempiendo la buca delle lettere d’inutili coupon: “Stimatissima artista ci pregiamo invitarla alla rassegna bla bla blà, chiediamo soltanto un contributo spese per la stampa del catalogo in quadricromia e bla bla…E lo sai a quanto ammonta il contributo richiesto? Usurai! Neanche fosse d’oro, ma lasciamo correre! In ogni modo voi non potete capire giacché commercializzate e non create, solo chi ha l’animo sensibile può percepire la verità… ”

“Alma ha tirato fuori gli artigli! Qualcosa o qualcuno l’ha scossa dal letargo. Che sia Vittorio? Se è così, vuol dire che gli sta a cuore e questo è buon segno! Era da tanto che non la vedevamo così battagliera, eh, Dario? Sai cosa significa?” “Certo! è uscita dal torpore grazie a Vittorio. Vedrai, sarà di nuovo la regina dei momenti culturali della nostra città!”
“No! Questo mai più! Ve l’ho detto un sacco di volte: mai più salottini! Lasciano il tempo che trovano e servono solo a fare passerella. Non è di vetrine che ha bisogno la cultura ma di fatti concreti e noi dobbiamo essere i degni fautori d’avvenimenti catalizzanti! E, se Vittorio sarà con noi, senz’altro costruiremo belle cose insieme.”
Alma è contagiosa. La sua enfasi stimola e accende nuove fiammelle negli animi martoriati e anche se ci vorrà del tempo per eliminare l’angoscia montata come panna sul cumulo dell’agrodolce quotidiano, la sua purezza condurrà, immancabilmente, su alte vette. Certi incontri, non avvengono per caso!

In fondo alla sala, una parete a giorno delimita l’angolo bar. La buvette è in piena attività. L’odore del caffè mescolato al fumo delle sigarette invade l’ambiente e sembra riportare Vittorio allo stato cosciente. Sussurra qualcosa. Il movimento impercettibile delle labbra dà corpo alle sofferenze dei suoi pensieri fino a trasformarli in preghiera: “Avrei voluto possedere la quiete interiore; la stessa che regna nell’animo delle menti evolute, la cui forza consiste nella positività e le cui energie sfociano al bene universale, con la stessa spontaneità delle acque protese verso il mare. In simili condizioni la mia casa sarebbe ovunque; e, la ricchezza, il non possesso… Però, il fatto stesso di volerlo ributta la mente nel vortice dei sensi imbevuti di materia. Le mie potenzialità, represse dalla logica becera di un’impostazione sociale settaria, urlano rabbiose quanto angoscianti preghiere al cielo. Impotente, di fronte alla miseria umana, lotto caparbiamente con l’ultimo esile soffio di speranza confidando nell’aiuto di Dio.”

Si è fatto tardi. La sala del ristoro è affollata. Gandhi punta gli avventori con occhi vitrei, quasi a voler riversare anni d’amarezze accumulate peregrinando nella città eterna. Vittorio lo conobbe per caso, la prima volta che andò a Roma. L’uomo, vestito di stracci, stava sdraiato su una panchina, nei giardini di fronte la stazione Termini. Al suo passaggio, il barbone tese la mano e chiese una sigaretta. Vittorio aprii il borsello, prese il pacchetto e glielo offrì. Il barbone ne prese quattro: tre le inserì in un pacchetto contenente varie marche di bionde e, la quarta l’accese. “Dove vai con l’aria così spaesata. Non lo sai che devi dimostrarti sicuro, altrimenti trovi qualcuno pronto ad approfittarsi dell’ingenuità di voi provincialotti in visita per la prima volta nella capitale?” Le parole uscirono dalla sua bocca galleggiando su nuvolette di fumo. Stiracchiò le membra; infilò nei pantaloni un angolo di camicia e, rassettandosi alla meglio si offrì da cicerone. “Dove devi andare? Vieni, ti accompagno io. Magari mi offri un panino per il sevizio”.
Imboccarono Via Nazionale; la percorsero fino a Piazza Venezia e, lì, nei pressi dell’altare della patria, come convenuto, c’erano i compagni d’avventura di Vittorio con i quali, fin dalle scuole elementari, sognava di costituire una compagnia teatrale. Lo spunto lo diede una recita scolastica realizzata completamente da loro, dalla sceneggiatura ai testi. La maestra li incoraggiò, raccontando degli esordi di alcuni popolari attori che iniziarono, con estremo entusiasmo e tantissima voglia di fare, proprio come loro. È trascorso molto tempo da quel loro primo incontro; ma, a Vittorio, è rimasta impressa nella mente la fisionomia del barbone filosofo che gli tenne compagnia tutto il giorno, chissà se anche Gandhi si ricorda di lui, nonostante i segni del tempo.
“Cos’è che t’angustia amico? –chiede Vittorio, accostandosi al vecchio- Eppure, un tempo eri più solare, sarà la vecchiaia a …” “Chi sei chi ti ha chiesto niente cosa vuoi dalla mia vita vattene!” “Ehi, Gandhi, non mi riconosci? Non ti ricordi più di me? Possibile che sia cambiato così tanto?…” “Vattene via! Il passato non esiste c’è solo un unico eterno presente ed il tuo non comprende il mio! Tu sei pieno di contraddizioni. Vattene vattene. Non voglio essere contaminato dai tuoi pensieri. Hai esaurito l’energia. Vattene.”

Il tempo è uno scultore impietoso; plasma la materia assoggettandola all’età: qualche chilo in più, molti capelli in meno, barba grigia, occhiaie, muscoli meno tonici, vestiti curati. Sì, Vittorio è cambiato totalmente! Il capellone in jeans dalla schiettezza semplice è morto da un bel po’. Ma non è il dato esteriore che ha condizionato Gandhi, quello che lui ha fiutato non sta davanti agli occhi fisici o riflesso nello specchio del bar. Lui ha visto e sentito un altro uomo. Ha percepito l’energia negativa di chi si è lasciato sopraffare dagli eventi e si è arreso alla logica comune che sottace la poetica dell’arte a favore della tranquillità economica. E anche se ciò non è avvenuto, lo stato d’animo di Vittorio è talmente maldisposto che lascia presagire un lento e inesorabile declino fino ad allora impensabile. Tante cose ha percepito Gandhi; e su tutte aleggia il tanfo della morte dei sogni. E lui detesta chi uccide gli ideali.

II
L’atmosfera composta della vernice è messa bruscamente in subbuglio dalla volgarità di un visitatore che, trasandato nell’aspetto, si avventa nella galleria e investe gli astanti con parole di derisione: “In arte si è già visto e detto tutto è inutile esporre cose scopiazzate. Questo l’ho già visto, questa cos’è? Dov’è l’innovazione tanto decantata in questa mostra! Vedo solo falsa pop art! Assemblaggi fatti negli anni cinquanta. Cose trite e ritrite. Ci vuole mestiere per essere veri pittori. Anni e anni di lavoro…” “Calmati Ludovico non essere sempre scontroso e in guerra con il mondo intero, se guardi con l’animo sgombro da pregiudizi vedrai condensata tutta l’arte del passato e quella contemporanea in una sintesi mai vista prima d’ora. È vero che in arte s’è detto tutto! Nella letteratura come in musica, ovunque, in ogni campo in cui l’uomo esprime i propri sentimenti. D'altronde le note musicali sono sette, l’alfabeto è composto di ventuno lettere, eppure ogni istante si creano nuove melodie e si compongono poemi inediti. Tu che sei un artista m’insegni che la poetica visiva contemporanea esprime e trova la sua maggiore forza espressiva grazie ai percorsi linguistici dei maestri del passato. Senza contare che la tecnica è solo una delle componenti dell’arte. Se così non fosse non sarebbe arte ma semplice mestiere. Ma, lasciamo da parte queste teorizzazioni scontate e brindiamoci sopra. All’arte! Alla poesia visiva!” “All’arte! Agli artisti! Bèh, Alma… Effettivamente a guardarli bene, sì è vero! –Approva, con aria assorta Ludovico, mentre sorseggia un altro brandy- c’è forza e passione come non mai, nel tratto, nella composizione in tutto insomma…”

“Ludovico è un brav’uomo –Confida Dario a Vittorio- alcolizzato, purtroppo, eppure è un bravo pittore. Peccato! Da quando è solo, beve per intontirsi…noi lo aiutiamo come possiamo…”
E’ notte fonda. Il buffet del locale è ingombro di bicchieri, tovaglioli accartocciati, qualche dessert, piatti accatastati e cicche galleggianti nel liquido giallognolo di qualche bicchiere. Il cameriere li raccatta in un sacco di plastica nero. Dario e Giulio, sprizzano gioia da tutti i pori. Alma, eccitatissima, non zittisce un attimo. E Vittorio sembra mentalmente altrove. Una nebbia greve offusca la sua visuale, gli rende il collo molle e le palpebre pesanti; lo annulla in un sopore simile al sonno; ma, non è semplice stanchezza: è mollezza causata dai soliti granitici pensieri molesti che lo intristiscono e non gli fanno godere i meritati vanti. Comunque, ormai ha deciso: “È l’ultimo atto! –dice tra sé- A che vale gioire di lodi fuggevoli? Tanto, finita questa serata si ritorna alla solita, banale e infruttuosa vita piena di stenti e sacrifici. Meglio lasciare perdere. Chiudere in bellezza e trovare un impiego.” Ma Alma sembra leggergli i pensieri. Si avvicina, lo prende sottobraccio. Si stringe a lui e: “È stata veramente un’ottima vernice. Era da tanto che non ne vedevo una degna di nota. Ormai mi ero rassegnata. Credevo che la sensibilità poetica fosse morta insieme agli ultimi artisti e invece tu mi hai fatto ricredere. Grazie, grazie per avermi ridato la fiducia…” Ma, più che dalle parole, Vittorio, rimane colpito dall’eloquenza dello sguardo. Uno sguardo carico di ammirazione e rispetto vivacizzato dall’imbarazzante abbraccio: il seno burroso di Alma preme sulla sua spalla. Con estremo garbo si libera dalla stretta, così da zittire i sensi e interrompere la pressione emotiva. Le sorride debolmente. Ringrazia. Raccoglie il soprabito e si accomiata con un leggero inchino.

L’orologio del cruscotto segna le quattro e venti, è tardi per chiamare casa. Vittorio accelera, alza il volume della radio e si concentra nella guida. Non dà peso alla promessa fatta ad Alma: sa bene che l’indomani, salvo complicazioni indipendenti dalla sua volontà, andrà come di consueto allo studio, se non altro per impegnare il tempo, d'altronde, chi gli avrebbe potuto offrire un qualunque lavoro ?

Fulminee lame di luce trafiggono gli occhi. Ribalzano sullo specchietto retrovisore, feriscono l’iride e chiedono il passo. Vittorio guida da quasi tre ore; ha gli occhi stanchi. Rallenta. Entra nell’area di sevizio. Fa il pieno; fa pulire il parabrezza e, ultimate le necessarie attenzioni alla vettura, si dirige al punto ristoro. Consuma un caffè, sceglie due piccoli peluche con le mani a clip. Li fa confezionare. Paga ed esce. Una sferzata d’aria intrisa di fenolo lo investe. Strofina le lenti con una salviettina. Sale in macchina. Posiziona il sedile. Allunga lo schienale e riparte.
La monotonia del paesaggio è interrotta bruscamente da una massa indistinta; enorme, nella sua offuscata maestosità. Vittorio ha un sussulto davanti alla “cosa” sconosciuta che si staglia imperiosa nel cielo rischiarato appena dalla luna. Ai bordi della carreggiata il cartello barrato indica il confine territoriale tra Basilicata e Calabria. “Già il Pollino!” –Esclama- Tira un sospiro di sollievo; si risistema sul sedile e dà gas. “Il più è fatto. Tra un paio d’ore sarò a casa…”


III

“L’interesse culturale è stato straordinario, purtroppo, le vendite no; rientriamo a malapena nelle spese. Ma questo non ci dà peso, era nelle nostre previsioni.” “Come da copione!” “Sì, ma non sai il resto: siamo stati contattati da un mercante toscano. Vuole un appuntamento tu mi dai libertà d’azione?” “Sì fai tu. Comportati come ritieni opportuno, ci risentiamo. Ciao Dario” “Ciao Vittorio ti chiamerò per informarti. A presto” Click.
La depressione assale quieta le difese immunitarie e proietta visioni angoscianti di un futuro incerto. Vittorio non aleggia più sopra le coscienze da tempo. La sua anima è crollata per l’ennesima volta nella quotidianità materiale, insozzandosi. Lo studio si trasforma in luogo di pressanti claustrofobie. Con rabbia infila il giaccone ed esce per strada. Entra in macchina. Guida fin dove l’azzurro del cielo si mescola al mare e, nel riverbero cristallino, la lingua d’asfalto sembra dissetarsi nelle calme acque della baia di Pietragrande. Sul viadotto di Stalettì le macchine sfrecciano veloci strombazzando rabbiose agli ostacoli come a volerli annientare.
Nel piazzale Cassiodoro, Vittorio, beve la visione incontaminata della natura: dagli scogli sottostanti batuffoli argentei si alzano chiassosi in volo; volteggiano nell’aria. L’acqua s’adombra. I gabbiani puntano la macchia fluttuante. Lacerano l’impalpabile confine. L’acqua spumeggia: la macchia si apre. Per il branco di pesciolini è tardi, alcuni s’inabissano, altri diventano cibo per chi ha saputo pescare. “Che incanto! Questo spettacolo altrove se lo sognano! Eh Vittorio?” “?!..Michele, Michele carissimo! Che piacere; da quanto tempo, come va la vita?” “ Non mi lamento sai da quando sono a Milano ho risolto i problemi economici, quelli “spirituali” purtroppo no, ma lasciamo stare! Parlami di te.” “Insomma…mi becchi in un momento difficile. Sto valutando la possibilità di, anzi no! Se trovo altro da fare mollo tutto! Non siamo più ragazzi per volare dietro le chimere caro Michele…” “Ehi cosa vuoi dire? Che ti sta succedendo?, dov’è finito l’entusiasmo con cui affrontavi la dialettica del vivere?” “Bèh, a tutto c’è un limite.” “No a tutto c’è rimedio e poi, tu sei un creativo, un artista! Stai semplicemente passando, una normale, anzi, salutare crisi esistenziale, niente di più. T’invidio, sai. Guarda me! Sono qui grazie ad un convegno. Mi sono ridotto ad approfittare dei congressi per rivedere qualche volta in più la terra in cui sono cresciuto e dove ho i ricordi più belli dell’infanzia. Ricordi le nostre giornate ai giardini, io tu e Andrea eravamo inseparabili scusa un attimo, ormai con questi aggeggi ci beccano dappertutto. Pronto…sì va bene, sì d’accordo a stasera ah! Aspetta! C’è qualcuno che vuole salutarti.” “Sì?! Andrea carissimo, come va! Tutto bene? No ci siamo incontrati per caso…va bene! Sarò felice di esserci, a stasera” “Bene! Allora a stasera come ai vecchi tempi, ora scusami ma devo scappare s’è fatto tardi. Ciao” Conclude Michele mentre si avvia alla macchina. Sale, abbassa il finestrino e lancia l’ultimo saluto con la mano. Dalla strada panoramica lo sguardo abbraccia buona parte del golfo di Squillace. Sotto il piazzale, forti artigli rocciosi, solleticati da lèggere increspature spumeggianti, s'immergono saldamente nelle acque trasparenti del mare Jonio. Quante estati trascorse qui! E, quanti giochi tra gli scogli delle vasche di Cassiodoro…
Là tra gli anfratti, al riparo da sguardi indiscreti, in una vecchia cabina balneare, due ragazzi dall’apparente età di 17/18 anni si scambiano effusioni d’amore: lei, timida lascia ciondolare le braccia lungo il corpo esile; lui impacciato, le prende la mano per abbandonarla subito dopo. Boccioli appena schiusi, le labbra sfiorate da leggeri aliti alla scoperta di territori ignoti. Le giovani membra, scosse da fremiti nuovi, vibrano sotto i vestiti lievi.
La ragazza si scosta dal contatto giunto ad uno stadio estremo. Scappa via. Singhiozzi, misti a brividi inconsueti, pervadono la sua pelle al primo appuntamento. Lui tenta di fermarla…
Non è trascorso molto tempo da quando la passione ardeva i corpi e faceva battere forte il cuore… l’atto d’amore nasceva da dentro e avviluppava le menti fino all’annullamento, alla fusione delle anime, ed ora… La routine ha fregato tutti. L’atto d’amore non è più tale; …è come mangiare e non saziarsi…bere senza mai dissetarsi alla fonte del desiderio. In cosa si è sbagliato? Troppo amore? Eccessiva felicità esternata al resto del mondo? O, semplicemente, si è lasciato naufragare l’entusiasmo della scoperta, convinti d’avere esplorato appieno i rispettivi territori di caccia? Labbra esitanti; carezze fugaci…cuore in gola… timore e pudore. Osare, osare cosa?… Si può rinverdire l’albero morente della passione soffocato dai molteplici problemi della quotidianità?… Carriera, lavoro, soldi: feticci agognati; imperativi imposti e subiti dal potere coartante dei media, assoggettati al modello stereotipato del ricco/bello/potente/felice. Pensieri inutili, (o, sentinelle incrollabili?) circondano, penetrano, sbrindellano ipotetiche strategie auspicando speranze di rinascita… Solo l'ignoto accende la miccia poetica della ricerca e sublima i nuovi territori.
Personaggi sporchi di realtà popolano luoghi idilliaci, infinite storie s’intrecciano… da Ulisse ai giorni nostri. Trent’anni…sono trascorsi trent’anni. Conclude Vittorio, sollecitato dalle vibrazioni del telefonino che gli sbatte sulle costole da qualche secondo.
“Sì, pronto? Ciao Alma come va…mi fa piacere…no lascia perdere ormai ho deciso…sì sono contento ma sai non serve…diciamo che è l’ultimo canto del cigno glielo detto pure a Dario.” “Ma quale ultimo canto del cigno! Io direi ch’è la rinascita della fenice altroché” “No è inutile insistere, sono stanco di cozzare contro i muri di gomma. Lo so come vanno le cose: andrà bene adesso ma superato l’entusiasmo del momento tornerà tutto come prima.” “Ma come devo dirtelo che Lucrezia è entusiasta come non mai e ti vuole nella sua galleria? Sei il classico calabrese dalla testa… dur…friiii…onto…mi sen tifrrr” “È caduta; poco male.”

Vittorio ripone il telefono. Risale in macchina e percorre a ritroso la s.s. 106. C’è poco traffico: in pochissimi minuti, arriva a Roccelletta di Borgia; dalla strada, oltre i bassi muretti a secco s’intravedono le transenne degli scavi e i resti della chiesa normanna di S. Maria della Roccella nel Parco Archeologico. Gruppi di persone, si muovono tra gli ulivi secolari le cui radici custodiscono ancora i tesori dell’antica Scolacium. Supera l’incrocio di Catanzaro Lido e in breve è nello studio davanti al cavalletto. La radio trasmette musica e messaggi demenziali tratti da notizie pubblicate dai quotidiani. Lo spaccato impietoso del costume sociale diventa fonte di lavoro per i conduttori della trasmissione, che sarcastici, cementano il trionfo dell’apparire frivolo coltivato con cupidigia dai mass media. Vittorio non dà peso, immerge il pennello nella trementina, lo asciuga con lo straccio, valuta la morbidezza delle setole con le dita. Tampona allo straccio pulito il pennello e l'adagia sul ripiano, vicino la tavolozza. Toglie il camice. Infila il giaccone e schiaccia l’interruttore generale dietro la porta. Sorride ripensando alle battute dirompenti che Michele liberava negli interminabili pomeriggi trascorsi ai giardini. E sorride anche mentre rincasa: “Oh, che bel sorriso! Buone nuove?” “ No, semplicemente ho rivisto quel matto di Michele. Te lo ricordi? Stasera siamo a cena insieme ci sarà anche Andrea te lo ricordi? Sono anni che non ci vediamo. In sostanza dai tempi della scuola. Mi ha fatto proprio bene incontrarlo. Avete mangiato?” “Abbiamo mangiato. Io un po’ di frutta e Valerio le lasagne; e tu? Vuoi che ti prepari qualcosa…” “No grazie: sono venuto a riposare un po’. Riposa anche tu, così stasera sarai in perfetta forma.” “Vengo pure io, papà!” “No, pulcino, non puoi venire: si farà tardi, molto tardi e poi non ci sono bambini t’annoierai…” “Sono grande, guarda! Oplà lo vedi? Lo vedi? T’arrivo qua” “Sì lo so che sei un giovanotto ma questa sera è meglio se farai compagnia a nonna.” “No! Voglio venire con te, anch’io dipingo come te…”

Le luci della sala si riflettono sulla vetrata e tagliano di netto il buio della notte. Valerio, si avvicina ai vetri, accosta le mani, poggia la fronte e guarda fuori. L’alone vaporoso dei lampioni mitiga i colori della notte. Alcune lampare lasciano intuire le coordinate della scogliera su cui sorge il ristorante. Valerio ne segue la rotta col dito sui vetri per un po’, poi, prende posto al tavolo e tiene testa alla discussione con proprietà di linguaggio e risposte inconsuete per un bambino della sua età. Ninì dialoga affabilmente. Vittorio si sente sereno, se potesse fermerebbe il tempo! L’incontro è gradevole; Andrea chiede a quale università è iscritto il piccolo genio; Michele, nell’assecondarlo, lo stimola con domande “da uomo ad uomo” e Valerio risponde serio tra la meraviglia di Immacolata, la segretaria, ed i sorrisi compiaciuti degli amici. Una sorta di benessere intimo rende gli animi propensi al dialogo, forse qualcosa di buono sta per accadere.

Le prime luci dell’alba filtrano attraverso le assi delle persiane. Fuori, la città dorme ancora. Vittorio si alza piano; attento a non fare rumore, raggiunge la porta del bagno. Stiracchia le membra; passa la mano sulla barba ispida; accende la luce, ne valuta la consistenza allo specchio. Spreme della pasta sul pennello e insapona con un lieve massaggio le guance. Fa le due solite rasate; tonifica il viso con del dopobarba, infila l’accappatoio e si sposta in cucina a preparare il caffè. L’aroma pervade la casa. Il gorgoglio si attenua fino a trasmigrare nel fruscìo lieve d’impalpabili ali seriche: Ninì, bella come un fiore appena schiuso, si affaccia nella stanza e tende la mano. Le porge la tazzina, s’accomoda dolcemente sulla sedia e sorseggia il caffè fumante. Valerio dorme raggomitolato nel suo lettino: le apine del carillon appeso alla mensola dei giochi vigilano sopra il suo caschetto biondo. Vittorio, ultimata la colazione, finisce di vestirsi: calza le scarpe, infila il soprabito e saluta Ninì, lei, ancora in vestaglia, nell’accompagnarlo all’ingresso gli chiede notizie sugl’impegni del giorno: studio al mattino e lezioni al pomeriggio, le risponde sfiorandole le labbra con un bacio, ed esce.

Le lastre di pietra del vicoletto bizantino sono ricoperte dalla brina notturna. La città dorme, solo Totò, un ometto piccolino coi capelli bianchi di farina e il cesto del pane sulle spalle va a rifornire il negozietto di Concetta. L’originario impianto urbano, intessuto di vie strette e ravvicinate in armonia con la morfologia del terreno accidentato, non esiste più a causa dei terremoti, del rinnovamento edilizio del 1870 e dall'ultimo maquillage imperniato su anonime geometrie avulse dal contesto storico.

Vittorio scrolla la testa in senso di diniego. Ancora non si è assuefatto alla vista di quegli orrendi mostri in cemento; il kitsch trionfa dappertutto a dispetto della storia e delle tradizioni popolari che manovrate abilmente si lasciano plagiare mansuete. Imbocca vicoletti stretti, passa davanti alla chiesa del monte dei morti e gira a destra: la piazzetta non esiste più! Al centro un enorme sarcofago ingombra inutilmente l’area del “pianicello” e gli oblò incastrati nelle cunette completano l’inno all'inutilità. Dopo una serie di serpentine per le vecchie viuzze, sale una rampa di scale esterne; in cima, sul pianerottolo due porte si fronteggiano. Bussa all’unico campanello. Voci attenuate ma nitide giungono dall’interno della casa. La porta si scosta ed una testa arruffata spia curiosa dalla fessura: “Chi è? Ah, siete voi! Prego accomodatevi. Nino c’è il professore, vieni!”
Espletati i convenevoli dettati dall’ospitalità, la matura signora, stringendosi la vestaglia al collo, premurosa, ripone le tazzine del servizio buono nel vassoio. Il marito, fruga nella credenza, sgancia delle chiavi; apre l’altra porta sul pianerottolo e spalanca le persiane: l’ingresso angusto immette in uno stanzone enorme ben illuminato; alla parete di fronte una porta a giorno conduce al bagno e lateralmente un cucinino con balcone conclude la visita. L’ambiente è arioso, e incontra il gradimento di Vittorio, il prezzo no! Le vendite sono al minimo e le ore di lezioni appena sufficienti per tirare avanti.
Si lasciano col proposito di risentirsi, anche se in cuor suo, Vittorio, sa bene di non poterlo prendere in fitto in un futuro prossimo. Trascorre l’intera mattina a riordinare il vecchio studio. Butta quanta più roba inutile gli capita di trovare. Costruisce dei ripiani per i lavori finiti e le tele bianche; sposta le poltrone sotto il finestrone e vi affianca il tavolo da lavoro. Finalmente riesce a dare una parvenza di spazio razionale al gran casino creato nel tempo. Soddisfatto, interviene su un’opera ancora fresca. Tastoni, cerca la spatola; guarda sul tavolo, nel contenitore dei pennelli: niente! Ancora non ha memorizzato il nuovo ordine degli attrezzi. Ma, non perde tempo a cercarla, pulisce la cazzuolina del cemento; prepara un composto grossolano di materiale inerte e lo trasferisce di getto. Lavora velocemente, spruzza del colore caldo: la lacerazione ottenuta lo soddisfa. Lancia un’occhiata alla sveglia appesa alla parete: quasi le 13 e 45. Rimane giusto il tempo per mangiare qualcosa e correre a tenere la lezione.
Indossa il soprabito in tutta fretta, strofina le mani allo straccio; tira la porta alle spalle e va spedito a casa. Sale le scale rapidamente. Entra in cucina, sul tavolo un piatto coperto, mezza bottiglia di vino rosso, pane, del formaggio, salsiccia affumicata e frutta secca.
Dal salone giungono le note scandite al pianoforte da Ninì: come tutti i martedì e giovedì, tiene lezioni di musica. La pasta al ragù fuma ancora; la spolvera con abbondante formaggio; tagliuzza del peperoncino piccante; versa del vino nel bicchiere e lo sorseggia. Mangia la pasta; controlla l’ora. Si alza da tavola, saluta velocemente con un bacio Valerio e lo incarica di portarne uno alla mamma, raccomandandogli, nel contempo, di badare a lei e di proteggerla: “Non ti preoccupare Vittorio, ci sono io a difenderla, guarda i muscoli, oggi ho mangiato tutto!” “Ciao pulcino! Sei veramente un ometto, a stasera” –Gli sussurra mentre valuta positivamente la consistenza dei suoi muscoli- “Hai visto quanto sono duri! Stai tranquillo papà ci penso io!”


IV

“…comu i ciceri ‘nto sitacciu a capu mia va girandu…e subba u cavaddhu e San Franciscu nci vajiu appressu mundu mundu…
Come i ceci nel setaccio, girano senza pace i miei pensieri, e sul cavallo del Santo Povero (a piedi), stancamente l’inseguo per il mondo…”
Avrà trenta anni e indossa capi fini dai colori chiari. I più non sanno chi è, né da dove viene; i catanzaresi lo trovarono una mattina qualsiasi che girovagava per le strade del centro e lo accolsero senza riserve, ritenendolo uno di loro da subito. Divenne, al pari della statua del cavatore in Piazza Matteotti, del S. Giovanni, del viadotto Morandi, tutt’uno con la città.
Alcuni lo vogliono nobile decaduto, altri impazzito per una storia d’amore ma, a lui, non sembra importare granché del giudizio degli altri: sta lì, al solito posto e fissa la gente con gli occhi vispi, incastonati nel biancore arruffato di barba e capelli. Nell’abitacolo, il tepore aumenta; Vittorio avverte una sorta di mollezza agli arti; il torpore lo invade leggero e gli rende evanescente l’uomo che gli sta davanti. Fa caldo; i motori delle macchine prigioniere nell’ingorgo sistematico della città vanno su di giri, le lancette dei radiatori puntano pericolosamente la zona rossa. Qualcuno chiede notizie ai passanti. Saputo di un probabile incidente, si spengono i motori; dopo alcuni scossoni i pistoni cessano la corsa. La camicia di Vittorio è incollata allo schienale; apre i finestrini. Il nostro amico dal testone bianco si appoggia ad un albero e dopo una breve pausa ricomincia la cantilena: “Comu i ciciri ‘nto sitacciu…” Gli sguardi dei due s’incontrano; il barbone sorride; si avvicina alla macchina di Vittorio; appoggia le braccia alla capotta, si china, lo fissa diritto negli occhi e gli scarica addosso la sua cantilena: “a capu mia va girando”. Di colpo muta espressione e sentenzia: “Che stai a fare in questa scatoletta? Esci dal branco! Muoviti. Scappa! Comu i ciciari ‘nto sitacciu…”. E, si allontana.
Le esalazioni bituminose dell'asfalto molle penetrano negli abitacoli delle autovetture. Dalla posizione in cui è Vittorio domina buona parte di strada: alla sua destra, la fila proveniente da Via Milano boccheggia di meno grazie al fresco delle case e dei tigli ai margini dei marciapiedi. Di fronte a lui, le portiere spalancate delle macchine vuote creano uno sbarramento irreale: la gente si assiepa al fresco dei portoni; alcuni affollano l'entrata dei bar, altri si rifugiano nei negozi e intavolano discorsi con i commercianti. Una vecchietta assapora di gusto un cono alla nocciola sulla soglia della libreria e, più avanti, sullo stesso marciapiede, un uomo scheletrico dai modi gentili, con baffi neri e capelli ricci corvini, in camice bianco, ascolta il resoconto di un signore. Il grido isterico della sirena rimane costante, l’ambulanza è bloccata, impossibilitata d'andare oltre; ai barellieri non resta che scendere di corsa e trasportare la lettiga in direzione del Cavatore, a sud. A metà strada si fermano. Il vigile urbano, in contatto radio con la scena dell'incidente non lascia passare nessuno: non ci sono feriti. I capannelli dei curiosi, disseminati lungo il tragitto, si dissolvono repentinamente per ricomporsi numerosi laddove le notizie nascono, incuranti del vento caldo che asciuga i sudori addosso e fa ardere la pelle. Finalmente il traffico riprende a scorrere tra il fuggi fuggi generale, lo sbattere di portiere e gli avviamenti rabbiosi di motori. Una macchina di grossa cilindrata, al termine di una breve gimcana s’inchioda nei pressi della vasca del cavatore; le portiere si spalancano violentemente e mostrano un ragazzo svenuto. Uno dei compagni immerge il fazzoletto nella vasca e tampona la faccia del malcapitato mentre un l’altro lo sorregge davanti ad una ragazza inebetita. Il vigile si precipita ansando mentre chiede assistenza col radiotelefono alla centrale. I barellieri, questa volta sul posto, danno gli aiuti necessari intervenendo con professionalità. Il malcapitato è in preda ad una crisi d’asma. Sicuramente, il barbone, carico di buste piene di chissà ché, fermo sotto l’albero di Via Indipendenza, avrà altro per la testa. Il frastuono del traffico lentamente si ammortizza; Vittorio lo avverte appena. Il caldo è soffocante. Sigillato nella Lancia dal cruscotto altamente tecnologico ricoperto in radica. Il torpore gli affloscia i muscoli; apre gli occhi: temperatura interna 30°, stop sinistro spento, spie rosse accese: la centralina è andata in tilt! Altra spesa da sostenere. –Commenta rassegnato Vittorio- Il suono rabbioso di un clacson lo riporta alla realtà. Sfrega gli occhi assonnati. Ingrana la marcia e parte con la mano alzata in segno di scuse all’automobilista costretto in coda dal suo dormicchiare.
Appena fuori città, dopo la galleria del Sansinato, le condizioni climatiche cambiano.

Le tonalità grigie del cielo cupo, fanno da sfondo alle strisce colorate dell’arcobaleno; a tratti l’indaco si stempera in riflessi blu rosati. Gocce di pioggia sottili bagnano il parabrezza della macchina. Improvviso, il temporale si abbatte con violenza; le spazzole a stento riescono a liberare la visuale. Il paesaggio muta repentinamente: colline, pianure, tunnel, coste, mari dai colori cangianti. La radio trasmette notizie allarmanti: coppie di anziani salvati in extremis dalla morte per indigenza… …proiettili all’uranio impoverito utilizzati nell’ex Jugoslavia la causa di morti sospette…
Vittorio scrolla la testa. Azzarda mille ipotesi ma non ne conclude nessuna. L’unico dato certo è che la possibilità di guadagni colossali induce l’uomo a cannibalismi indicibili. –conclude amaramente-

Manca un quarto alle dieci. La segretaria prega Vittorio di attendere nel salottino. Andrea sta per concludere una riunione di lavoro. Solo pochi minuti e la voce gioviale del vecchio amico anticipa di poco il suo ingresso. Immacolata, la segretaria, lo segue con le tazzine del caffè. Con estremo garbo, Andrea, chiede all’amico la sua preziosa collaborazione nell’azienda di famiglia. Vittorio non ci pensa neanche un attimo, accetta senza chiedere ragguagli; d'altronde, lo aveva supposto, altrimenti che l’avrebbe chiamato a fare? Visibilmente soddisfatti, entrambi, si avviano ai cantieri. Il fare di Andrea è carismatico: si ferma a parlare con tutti e tra un suggerimento e una direttiva, trova una parola di stima o d’affetto per ognuno. Vittorio constata con sommo piacere che il tempo ha migliorato le qualità dell’amico. A pranzo glielo dice; lui, minimizza con un gesto della mano come per dire “lascia stare”, dilungandosi invece, sui progetti futuri e sul modo d’intendere i rapporti umani.
Ore 16; la giornata di lavoro è finita; le maestranze chiudono i cantieri. Cumuli evanescenti, picchiettati d’azzurro vanno disperdendosi all’orizzonte. Il nastro d’asfalto, lucido per la pioggia, scorre sotto il peso dei pensieri: …senz’altro, perderò un po’ di misantropia accresciuta in questi anni d’isolamento e poi, mi affascina il modo di fare di Andrea, come tratta le persone… poco importa se è un’impostazione formale oppure la parte sublimata del suo carattere sensibile; in ogni caso, dà un tocco di classe agli approcci umani e di conseguenza una lezione di vita a chi gli sta vicino. Sì, senz’altro è un bene per me…apprenderò molto da lui.
Tutto questo e altro, si dice con determinazione per zittire le ultime irriducibili posizioni mentali del suo essere artista. Ma il dubbio lo perseguita.
Sofferente nell’animo, con un cappello di pro e contro si ritrova imbottigliato nel traffico di viale de Filippis, alle porte di Catanzaro. I lavori di rifacimento nodale per eliminare i semafori di fronte al motel Agip, causano ingorghi esasperanti. Dopo circa tre quarti d’ora di bilanciamento tra frizione e acceleratore, con la caviglia indolenzita, giunge in centro. Cosciente di non trovare posto su Corso Mazzini, si dirige verso le zone blu delle strade parallele. Percorre tutta via Carlo V, giù per la serpentina di Fuori le Porta e risale da viale dei Normanni, Bellavista, Piazza Roma e nuovamente a destra per il Politeama.
La passeggiata dei catanzaresi non arriva fino a lì; non rientra nella loro tradizione, e poi, col cantiere aperto dei lavori megagalattici per la costruzione del nuovo teatro dovrebbe essere più agevole trovare un parcheggio. In effetti ha visto giusto: riesce a posteggiare la macchina di fronte l’hotel Belvedere, un attimino sotto l’area violentata del mercato.
Costeggia le transenne nell’area dove prima, appunto, c’era il mercato ortofrutticolo e alle cui spalle sorgeva il vecchio cinema dal tetto apribile, e sfocia nel budello di Corso Mazzini. Lì, inesorabile, la flemmatica fiumana di volti noti va avanti e indietro fino alle venti meno dieci. Alle venti tutti a casa per la cena.
Vittorio scende dal marciapiede e presta attenzione alle macchine provenienti da nord. Improvviso e aggressivo, da sud, il suono del clacson lo rigetta sull’isola pedonale: la macchina blu sopraggiunge inattesa. Superato lo smarrimento iniziale, rammenta le recenti modifiche alla viabilità cittadina: da poco, su Corso Mazzini, quasi a voler chiedere perdono alla città per lo scempio urbano operato negli anni “modernisti”, è ricomparsa la corsia contromano che dalla stazione della ristrutturata tramvia sale fino a Piazza Matteotti.
Nel cuore dei vecchi catanzaresi, rimane malinconico il ricordo delle rotaie nei pressi della prefettura, dove a malapena riusciva a passare una carrozza, ma la ricostruzione del passato non si recupera con le toppe: il nuovo è la contemporaneità, che, semmai, diverrà la storia dei figli, non dei padri.
Certe scelte non si capiscono; ma, ciò avviene a Catanzaro come a Roma, Torino o Milano; e, malgrado l’esperienza che il semplice profumo di un dolcetto fatto amorevolmente in casa può risvegliare la memoria creativa come avvenne con Proust, si continua a cancellare la storia, incuranti che soltanto la memoria aiuta a mettere ordine alla tirannia del tempo perduto e dà l’apporto poetico all’umanità. Con questo non si vuole dire che tutti, indistintamente, posseggono la stessa sensibilità, però è certo che gli affetti si consolidano nella trasmissione di memorie individuali e collettive attraverso le opere e il vissuto quotidiano. Ma, ringraziando il Signore, non tutto è stato stravolto; anzi, molte cose sono state realizzate positivamente. Vittorio guarda prima a destra e poi a sinistra, attraversa velocemente la strada e punta risoluto verso casa. Larghe chiazze muschiate; borchie ossidate in travi tarlate, gradini sghimbesci; odori aspri, mantengono intatto il fascino del tempo trascorso nel vecchio quartiere e all’ingresso di casa. All’interno, Ninì dispone il cibo nei piatti; Valerio, riversa una raffica di cose accadutegli durante la giornata mentre il tg delle 21 trasmette scene di degrado sociale: morta l’anziana donna trovata questa mattina in stato d’indigenza…
Purtroppo i drammi si susseguono, nell'indifferenza dei più, oggi come ieri ed i poveri del mondo, emarginati, strumentalizzati, merce di scambio dei potenti privi di scrupoli, assurgono alle cronache, loro malgrado, per fatti inumani e assurdi come quest’odissea della miseria. Intanto, le notizie continuano impietose a riversarsi dall’etere nella scatola magica attraverso il piglio deciso di una rossa impertinente: …giunge dalla Francia la notizia di un altro caso di leucemia: un volontario delle truppe di pace è ricoverato…l’uranio impoverito…la nato costituisce una commissione d’inchiesta…-e, cambiando inquadratura, come a voler entrare nelle case, la giornalista spinge avanti il mento, apre con cura le rosse labbra gonfie e legge un’altra notizia-…l’Australia vieta la carne d’importazione da 20 paesi…il caso di mucca pazza…
“Possibile? Possibile che l’uomo sia impazzito a tal punto?” Si sfoga, Ninì, che, per l’indignazione ha un filo di voce. Valerio, pur non afferrando appieno i concetti avverte la gravità delle notizie, osserva, la madre, con aria interrogativa e poi chiede: “Papà cos’è la leucemia e la mucca pazza?”
Vittorio cerca di spiegarglielo limitando i concetti di manipolazione genetica a banali errori di ricerca scientifica. È presto per caricare la sua giovane coscienza dei drammi dell’avidità umana; e, per sdrammatizzare, li informa dell’offerta di Andrea. Parla della giornata trascorsa ai cantieri e di quanto ha trovato migliorato Andrea. Ninì mastica piano del formaggio; manda giù. Lo fissa silenziosa: il suo sguardo penetra a sondare l’intimità dell’anima. C'è un attimo d'imbarazzante silenzio. Vittorio taglia un pezzo di formaggio; toglie la crosta e lo assapora. “È questo che vuoi veramente?” –chiede sommessa Ninì- “Ho visto due bambini al centro commerciale che chiedevano l’elemosina…” “Non divagare” –Incalza la compagna-. “Non divago!, ma è davvero così difficile eliminare l’ignoranza? Eppure, si sprecano tante energie per scemenze mentre…” “Valerio dai la buonanotte a papà, andiamo a letto.”
Una sorta di malessere oscuro si abbatte in casa. Vittorio ha necessità d’aria fresca. Apre le imposte del balcone. Appoggia i gomiti alla ringhiera e osserva le luci della notte. I rumori si quietano; la città si chiude. Ninì sparecchia e va a letto. Vittorio continua a fissare il vuoto. Spunta l'alba. Vittorio ha trascorso una notte insonne. Esce senza aspettare il risveglio di Ninì. Vaga senza una meta precisa. Ormai la città è in pieno fermento e sotto il portico del centro commerciale addobbato a festa, i due bambini del giorno precedente, ben vestiti e curati nell’aspetto, porgono agli astanti dei sottovasi vuoti: volti sorridenti, pensierosi, ciarlieri, galleggiano dentro e fuori i grandi magazzini; nessuno esterna apprensione o sgomento per quei fanciulli costretti a mendicare, eppure non sono i soliti nomadi addestrati all’accattonaggio. Pensare che si raccolgono fondi ingenti, attraverso i canali mediatici della solidarietà, ed ancora intere famiglie non hanno di che sfamarsi. Panza chjna canta e non cammisa janca! La filosofia popolare, condensa in filastrocche stringate il dramma quotidiano della sussistenza. È superfluo rigirare il coltello nella piaga del non profit e della solidarietà a pagamento. L’esistenza dei deboli, degli anziani e dei bambini è considerata solo se fonte di guadagno per le organizzazioni che se ne occupano. Vittorio è stanco di camminare. È stanco di vedere la gente accalcarsi famelica davanti all’ultimo ritrovato tecnologico da farsi, o, regalare. Rientra in casa. Nella stanza da lavoro la nuvola di vapore sale ad avvolgere il viso dolce di Ninì alle prese con un cumulo di panni da stirare. La osserva in silenzio e il suo essere diventa leggero.



V

Stiamo attraversando un periodo difficile. La realtà opprime i buoni propositi. La quotidianità, sembra costellata da ostacoli assurdi; l’ovvio si trasforma nel suo esatto contrario. Il male invade i cuori assoggettandoli a beceri inganni collettivi. Il retto è beffeggiato…
Solo in Dio vi è certezza! -Sussurra con un fil di voce il Sant’Uomo a conclusione del breve colloquio-. Per te è facile! Vorrei possedere questa tua forza, ma non ti voglio caricare delle mie angosce; sei già pieno di problemi più grandi. –confessa Vittorio- Il Signore si manifesta nelle piccole cose. -aggiunge con voce calma, carica d’umiltà e amore per il prossimo il carismatico, terziario francescano.-
Vittorio ebbe modo di conoscerlo anni addietro, quando con Ninì si trovò quasi per caso in un magazzino colmo d’ex voto su una zona impervia dell’Aspromote. Gli oggetti votivi conferivano un aspetto inconsueto al luogo e condizionarono quel primo incontro. Stampelle, carrozzelle, tutori, vestiti, catenine, quadri, appesi o accatastati, lasciati dai fedeli per grazie ricevute, trasmettevano sgomento. La porta a vetri si aprì ed entrò un uomo minuto vestito sobriamente di scuro. Il suo incedere timido colpì profondamente Vittorio che, scettico, continuava ad esaminare ogni cosa coi filtri della ragione. Le mani scarne dell’Uomo stringevano un rosario dai grossi grani sfaccettati. Vittorio non ebbe la consapevolezza di essere un privilegiato, né tanto meno poteva supporre di trovarsi di fronte ad un Uomo dal carisma insondabile; un Uomo che, oltre ai suoi acciacchi, si accolla il peso dei drammi umani da quando, ragazzino, ebbe la grazia di vedere la Madonna. Comunque ebbe modo di conoscerlo in seguito e adesso è ritornato con la speranza di trovare conforto alle sue angosce.
Sono le 18 e10 circa, quando ripartono dal piazzale sterrato dello Scoglio di Santa Domenica di Placanica. A tratti scende la pioggia ed incomincia ad imbrunire. Vittorio guida con estrema tranquillità: non gli bruciano più gli occhi trafitti dai fari dei veicoli contromano. Eppure, è senza occhiali! Si sente rigenerato da una forza invisibile e lo comunica anche a Ninì. Il suo pensiero vola sulle colline della speranza e della fede, ad incontrare idealmente la propagazione del Signore: Grazie Fratello!, grazie per la magnanimità con cui sopporti le pene degli altri, per la preghiera che fai nel silenzio della tua anima e, grazie ancora, poiché per tuo tramite, il nostro Padre Celeste si manifesta.

È un Mistero Divino l’esistenza dei Mistici: persone votate alla preghiera per lenire i mali dell’umanità! Come pure è un rebus la parte terrena che alimenta e allontana la maggior parte degli uomini. La materia è più forte della razionalità; né, tanto meno, la serenità si può acquistare ai grandi magazzini. Cosicché, chi non vive per elezione lo stato d’evoluzione spirituale cade facilmente nel mare dei problemi quotidiani. Difatti: la notte insonne delle anime agitate la conosce bene il nostro amico Vittorio: il letto diventa strumento di tortura, lo sguardo, va continuamente alla sveglia, penetra il buio della stanza guidato dai numeri fluorescenti che, accarezzati dalle lancette, rimangono immobili ad aspettare il segno del tempo che passa. E lui, vigile, spinge la lancetta dei secondi con gli occhi; il ticchettio gli riempie le orecchie, sbatte nelle tempie, rimbalza da una parte all’altra con cadenze sistematiche. Per certi aspetti è come se assistesse ad una partita di ping pong in cui i giocatori tengono il ritmo nell’attesa del momento opportuno per romperlo e fare punto. Ma il momento non arriva. La monotonia del rutilante tic tac amplifica i pensieri; li materializza, li trasforma in disagio. Vittorio si libera dalle coperte. Si alza dal letto e va in cucina. Ciondola un po’. Apre il rubinetto dell’acqua e aspetta. Lo scorrere del getto cristallino crea gocce di condensa sulla cannuccia cromata: beve. S’asciuga la guancia ad un canovaccio e aspetta sulla sedia a dondolo della nonna il nuovo giorno. I pensieri s’affollano. Vittorio s’interroga; ripercorre i concetti esoterici dell’eterno presente in contrapposizione alle azioni finalizzate a edificare un domani ricco d’ogni comodità e conviene che mentre si tenta di pianificare il presente, il futuro vola via. I fantasmi c’inseguono ovunque, rendono concrete le ansie e imprigionano l’intelletto. Poi, si avvicina al volto emaciato di una vecchina sorridente, rischiarata dal lumino votivo, sullo stipo e bisbiglia:
…Quanti sacrifici hai fatto per tirarmi su e quante cose mi hai insegnato, dimostrandomi sempre una fiducia immensa, con l’amore che solo una mamma sa dare! Solo adesso ho capito cosa provavi… Avrei dovuto essere più attento ai tuoi silenzi, alle tensioni malcelate; a quando non sapevi come andare avanti. Scusami per averti lasciata sola… Spesso, angosciati dalle tensioni personali ripieghiamo su noi stessi; gli altri non hanno sofferenze da lenire e assumono un ruolo marginale anche se sono le persone più care al mondo.… “Una mamma fa per cento figli ma, cento figli, non fanno per una mamma”… Ancora oggi me lo ricordo. Ricordo la tua espressione dolce; amorevolmente rassegnata nel recitare la massima popolare. Non volevi mortificarmi, ma solo farmi intendere l’unione viscerale materna che trascende tutto senza aspettarsi nulla in cambio… Mi hai insegnato ad avere coraggio, fiducia nella vita … “Dopo il buio della notte arriva sempre la luce del giorno”; dicevi! Grazie, grazie per tutto quello che mi hai insegnato…purtroppo lo capisco solo adesso! Perdonami mamma.

L’orologio appeso al muro segna le 5e45. Vittorio carica la macchinetta del caffè. Prende due tazzine dallo scolapiatti; versa mezzo cucchiaino di zucchero in ciascuna tazza e aspetta che Ninì si alzi.
Uno di fronte all’altra, circondati da un insolito quanto irreale silenzio, consumano la prima colazione. “Allora hai deciso?” –lo interroga Ninì- “Sì. Passo un attimo dallo studio e poi vado in cantiere, devo prendere dei lavori da far vedere ad Andrea; non mi aspettare a pranzo, ci vediamo stasera, ciao.” “… se è questo che vuoi…”

Nello studio il tempo assume connotati inconsueti, rallenta fino a fermarsi e la mente vaga in cerca di nuovi linguaggi. Vittorio osserva i lavori nei minimi particolari; non può fare a meno di tracciare mentalmente l’itinerario di lettura come se dovesse esporli. Si siede al cavalletto. Meccanicamente valuta la consistenza delle setole dei pennelli; pulisce la tavolozza e… abbandona ogni remora. Non si accorge del tempo che passa. Cinque minuti, si dice, e i cinque minuti diventano ore. Finché, il gracchiare del citofono non lo fa sobbalzare. Strofina le mani allo straccio e apre la porta. Alma, simile ad un uragano, piomba decisa nello studio in compagnia di una signora anziana. “Ciao come va tutto a posto? Non te l’aspettavi, vero! Tuttavia, mi sono detta: se la montagna non va da Maometto, Maometto va alla montagna! Ed eccomi qua. Allora?, vogliamo fissare le linee guida per la tua futura mostra? Lei è Lucrezia, la gallerista interessata al tuo lavoro; come vedi è qui a rendere immediato il contratto! Lucrezia, esponi i termini a Vittorio e apponete le firme in questo preciso istante nel frattempo prendo questo, questo…” “Come corri aspetta un attimo.” -le dice Vittorio- Alma, il maestro ha ragione; ragioniamo con calma e speriamo di arrivare ad un accordo, vero Vittorio? La posso chiamare Vittorio?” “Certamente! Ma allo stato attuale, l’unica cosa che posso fare con certezza è offrirvi qualcosa al bar.” “Va bene ma non la fare lunga più del necessario. Andiamo a prendere un aperitivo così parliamo meglio; su Vittorio togliti ‘sto camice!” –lo ammonisce, Alma-
“Vuole che le lasci il contratto? … Nel caso qualche clausola non è di suo gradimento me lo dica. Voglio assolutamente raggiungere un’intesa con lei! Mi raccomando…” –azzarda la signora- “Ma sì Lucrezia lasciaglielo lasciaglielo!, e stai tranquilla! Il giovanotto dovrà fare i conti con me!” –Vittorio sorride, prende i fogli e scatta sull’attenti-. “Agli ordini!” –Esclama, e chiude la porta-

La donna, raffigurata sull’orologio in stile liberty, brinda ammiccante. La lancetta delle ore taglia sinuosa il neo sulla guancia sinistra e l’altra, quella dei minuti, accompagna il pitone di piume adagiato sul seno: “Le 13e20!”
–esclama Alma- “Si è fatto tardi! Dobbiamo correre ciao Vittorio! Allora a presto e, mi raccomando, niente sorprese!” “D’accordo, ci penserò; ciao Alma, arrivederci signora! Per oggi l’incontro con Andrea è saltato!, meglio tornare a casa”. –constata Vittorio- “Andrea? E chi è Andrea?” –lo interroga Alma- “Un vecchio amico, poi ti spiego, ciao” “Va be va bè ma tu non fare scherzi mi raccomando.” Vittorio, piega in quattro i fogli del contratto; l’infila in tasca e prende la strada di casa. Lungo il percorso osserva, come di consueto, i ragazzi rincorrersi allegri nello spiazzo del basso edificio scolastico. Il vociare assordante riempie l'aria del freddo e spoglio cortile in cemento. Di colpo i ragazzini urlano parole d'incitamento: “Colpiscilo, forza, tiragli un pugno dai dai”. L'eccitazione sale. Volano calci e pugni. Gli zaini giacciono a terra, abbandonati ai margini del cerchio in cui sono racchiusi i due galletti eccitati. Il più massiccio ha l’aria del pacioccone: sorride mentre si difende dagli assalti del minuscolo guerriero. Continua a sorridere anche quando s’asciuga il rivolo di sangue che dal naso scende sulla bocca. Le mamme presenti, non riescono a penetrare la cintura dell’estemporaneo ring, impotenti strattonano i propri figli a sé. “Credevo stessero giocando!” Commenta un signore mentre si dirige al centro della baruffa. Deciso, l’uomo afferra saldamente alla vite l’indiavolato omino, lo solleva da terra e lo immobilizza. Il volto acerbo del fanciullo diventa livido dalla rabbia. Tra bestemmie e improperi, promette al rivale un seguito ancora più cruento, non appena ne avesse avuto la possibilità.
Lillo, non è cattivo; non c’è malvagità sul suo volto pacioccone; continua a sorridere e a respingere le cure della signora accorsa con dell’acqua ed un fazzoletto bagnato. Raccatta lo zaino e sale sullo scuolabus.
Martedì 12 novembre ore 13 e 40, sul selciato del cortile, un fazzoletto di carta macchiato di sangue gareggia con le foglie morte sospinte dal vento.


VI

Le possenti ruote delle ruspe affondano nella fanghiglia sotto il peso delle benne cariche di detriti; anche la passerella d’accesso alla baracca è ricoperta di fango. Vittorio trascina i piedi a fatica. Le scarpe, ingrossate dalla mistura d’inerti, diventano sempre più pesanti. Ha i piedi indolenziti. Scioglie le stringhe, sfila le scarpe e le sbatte tra loro: frammenti impazziti schizzano dappertutto. Il jeans, umido e ispessito di terra e cemento, è la sua nuova pelle da due settimane. Incomincia ad averne abbastanza! Non tanto per la fatica, quanto per il clima che si è creato grazie ai nuovi untori della colonna infame nostrana: la segretaria e il capomastro, maestri di pettegolezzo e delazione, simili a serpenti, si annidano pronti a mietere nuove vittime pur di tutelare i loro interessi. I soprusi sono all’ordine del giorno ed i collaboratori che intralciano i loro piani sono vessati anche nelle ovvietà. Altro che molestie sul posto di lavoro: è la sagra dell’arroganza allo stato puro, condita abbondantemente con l’uso spregiudicato del potere loro concesso. Vittorio, costretto dalle circostanze economiche familiari s’impone di non dar peso agli eventi, e, per rafforzare il suo intento ripercorre mentalmente vicissitudini più grandi:
“…Voi che vivete sicuri nelle vostre tiepide case, voi… Eh beh, non c’è paragone, voi avete sofferto davvero un dramma esistenziale. Voi morivate per un sì o per un no. L’unico elemento in comune è il fango per il resto perdonatemi! Non v’è raffronto con la denuncia poetica di Primo Levi, ma, davanti alle ingiustizie, t’annichilisci sempre. Senti che s’annullano le lotte dei padri per la democrazia, la crescita morale, la libertà dei popoli. Ritorni indietro nel tempo e capisci quant’è importante la libertà. La libertà! Se non altro, io sono libero! Senz’altro, devo considerare che non sono più da solo davanti ad una tela ma, insieme a persone con intenti differenti dai miei, e ciò che va bene in un dato periodo, diventa irrilevante o, peggio, dannoso in altre circostanze e in ogni caso, io sono qui per assicurare il pane alla famiglia, il resto è marginale. Sì, è così non devo pensare ad altro!
- È inutile che cerchi di giustificare l’atteggiamento di quelli che hai ritenuto i nuovi membri di una grande famiglia e che invece si sono rivelati degli emeriti stronzi. Devi convincerti della pochezza di questa gente: sei in un ambiente poco evoluto!, realizza ciò e fanne buon uso Vittorio! Ricordati: la gente comune stima il prossimo non tanto per le doti interiori ma per l’idea che si fa di lui. –‘Sta vocina mi fa sentire tanto Pinocchio! Ad ogni buon conto, è vero!, le menti ottuse lasciate libere d’alimentarsi e crescere in un ambiente povero di stimoli culturali, vezzeggiate dal pettegolezzo e allevate nella cospirazione, magnificano l’ego, lanciano a briglie sciolte la cattiveria e annullano l’etica. I concetti morali sono ostacoli stolti, posture da abbattere, non gliene frega niente della morte dell’anima. È in questo clima che la pochezza di pensiero amplifica e accentua i mali dell’umanità. L’avidità si ciba della miseria del terzo mondo, cresce con le guerre, stimola le pulizie etniche. Gli affari sono affari! Dicono perentori; e accomunati da una caterva d’ignoranza sulla vera essenza della vita, non raggiungono alte vette; ma, per questi signori non ha nessuna importanza. Come non ha importanza l’ingiustizia sociale, la povertà, comandata dai grandi imperi economici, mentre la bassezza morale, generata gratuitamente dell’apparire frivolo e dalla corsa al potere, poiché portatrice d’opulenza, li eccita, li mette in competizione e assume enorme interesse nella scala dei valori…” vrrr…vr.. “Carissima! Arrivi a proposito. Finalmente una voce amica, corroborante come un venticello fresco che trascina via i cattivi pensieri …Click… Pronto, pronto Alma!” …vrrr…“Vittorio sei proprio tu? Cosa ti è successo? Stai bene? Credevo di aver sbagliato numero…” “No! Non hai sbagliato numero è veramente un toccasana parlare con te; sai, ho trascorso una giornata pesante mai come in questo momento sono grato alla tecnologia che mi aiuta ad evadere dal limbo dei pensieri malsani”. “Sì va bè ma guarda che Lucrezia sta ancora spettando tue notizie. Non vuole prendere iniziative ma se per te va bene le dico di procedere come d’accordo. Vittorio hai capito?” “Sì sì va bene. Per me va bene” “Vittorio cosa ti succede? C’è qualche problema?” “Non no tutto bene…magari ci risentiamo con calma più tardi, a dopo ciao. Ora voglio solo allontanarmi da qui.”

Un'altra giornata si è spenta. Il sole sta calando, immerge gli ultimi bagliori all'orizzonte ed esalta la materia corposa delle rocce in simbiosi con i resti corrosi del torrione. L'ombra del rudere si allunga fino a toccare le trasparenze dell'acqua e le barche, solitarie, sembrano appisolarsi nella quiete del tramonto. Si è fatto tardi. Vittorio è sul raccordo della statale 18, nei pressi del bivio dell’Angitola; imbocca la A3, direzione nord. Cento, centodieci, centotrenta. Ruota la testa. Massaggia la nuca, per alleviare un po’ di tensione muscolare e lenire i sintomi della stanchezza accumulata nel corso della giornata. Guida, anzi è l’istinto che governa la macchina; non presta attenzione alla strada, il tragitto lo conosce bene. Svolta a destra. Imbocca l’uscita Lamezia/Catanzaro/Crotone.
Ormai ha assorbito i tempi di percorrenza, potrebbe farla anche ad occhi chiusi: rallenta, svolta a destra e dà nuovamente gas. All’uscita della galleria del Sansinato, ai piedi del viadotto Morandi, quando ormai assapora l'atmosfera della quiete domestica, una lunga colonna di macchine blocca l’accesso di viale De Filippis, pronto, devia per Catanzaro Sala. Giunge su viale dei Normanni, parcheggia la macchina a ridosso del muro di cinta di Villa Trieste: sale le scale che dal cancello sud portano al pianoro dei “cento metri”, quindi su per la stradina a serpentina lastricata di sassi bianchi, neri e grigi; attraversa gli spazi pianeggianti arredati con le sculture di Francesco Jerace e arriva nella piazzetta principale.
Ha il fiatone. L'età e l'abitudine sedentaria si fanno sentire. Rallenta il passo, prende fiato. Taglia per i vicoletti e…Finalmente a casa!




VII

Vittorio ha girato la Calabria in lungo e in largo a ritmi abbastanza sostenuti. I cantieri, per stare al passo coi tempi, sorgono e cessano ad una velocità impressionante. Ogni sito è preceduto da un detto popolare o da storie che si perdono nella notte dei tempi; il più delle volte amplificate dai vari: “Si dice, ho sentito, mi hanno detto”. Anche Vittorio, da bambino, si è lasciato suggestionare dalle leggende legate al brigantaggio.
Il fascino scaturiva dalle vicende rocambolesche dei briganti descritti come paladini dei poveri, in tempi di fame e miseria. E in quei tempi, di fame e di miseria ce n’era da vendere lungo lo stivale. E siccome non tutti avevano il coraggio di ribellarsi per migliorare lo stato sociale, quando il fato interveniva a mutare il corso delle vite, l’essere figli della gleba influiva a creare l’alone di mistero di chiunque fosse costretto alla macchia dai potenti.

I cantastorie, declamavano le gesta nelle piazze indicando con una scenografia elementare ma efficace, i passi salienti della vicenda. La storia, come tutte le narrazioni, era divisa tra buoni e cattivi, oppressori e vittime perseguitate. Il clima storico induceva le masse, vessate dal sistema, a mettersi dalla parte degli ultimi e manifestare solidarietà, in ogni caso: omertà! cosicché, gli abitanti dei contadi impervi dell’entroterra si videro cucite addosso, indiscriminatamente, storie di sangue, miseria e paura. Ma, spesso erano trovate romantiche che servivano a rendere effervescente il clima noioso dei salotti. Oggi, però, la gente di Calabria non è isolata e, a parte alcune manipolazioni mediatiche di certi soggetti, potrebbe vivere un periodo aureo, grazie ai giacimenti culturali, alla natura benigna dei luoghi… ma, perché narro di luoghi, sentimenti e affanni? Chi avrà la costanza di seguire fino all’ultima riga le mie divagazioni? Potrebbe non interessare nessuno, o, far presa su una piccola schiera d'indomiti romantici, così come avviene per le vicende di Vittorio, il personaggio principale del racconto. Pazienza! A prescindere dall’epilogo, narro per mio diletto i sogni suggeriti da una terra fantastica e di chiunque sta piantato sui sentieri impervi a coltivare la bellezza; ma, torniamo a noi.

La mostra, gestita da Lucrezia e seguita con passione da Alma, sta per far ritorno nella sede centrale della galleria; senz’altro, le due donne si faranno vive presto e forse, stando ai brevi resoconti telefonici, Vittorio potrebbe trovare sollievo alle sue peripezie.
In effetti, la telefonata non tarda ad arrivare. Decisa, Alma libera il suo pensiero:
“Servono assolutamente delle opere! Quelle che ci hai dato sono tutte vendute. Dobbiamo solo espletare le formalità fiscali e consegnarle ai collezionisti. Ci vediamo domani allo studio da te!” “Sono mesi che non vado allo studio, lo sai, ormai è da tanto che non dipingo e poi non ho più intenzione di ripercorrere un calvario che conosco già.” “Calvario? Che calvario! Reagisci! Che diamine! Perché vanifichi un dono bellissimo che altri t'invidiano…”
“Hai detto bene: altri!
Nell'ordine naturale delle umane priorità, rafforzate dalla morte delle ideologie continuamente strumentalizzate per abbindolare i buoni di cuore, chiunque riesce a penetrare nel mercato dell’arte ed ha riconosciuto il lavoro di una vita, dovrebbe ritenersi soddisfatto. Per me non è così! Sono fermamente convinto che il lavoro artistico sia un mezzo per superare le problematiche meschine legate saldamente alla materia, elevare lo spirito e non a creare atmosfere da idillio, virtuosismi artigianali o peggio, annientare la creatività, per soddisfare una richiesta di mercato. Non posso scadere in quello che ho sempre abiurato!” “Ma chi ti chiede questo? Ti sei bevuto il cervello? Non ti sto chiedendo un lavoro in serie ma di lavorare!” “Dici bene: lavorare! Sto già lavorando per Andrea. Non mi va di sporcare la ricerca poetica e “lavorare” per chi può permettersi d’investire i soldi in eccesso…” “Oh basta! Sei una testa dura! Domani in serata sarò da te.”

Alma è passionale. Con la sua veemenza riesce sempre a vincere le avversità e convogliare gli intenti verso un unico fine. Determinata, trascina Vittorio allo studio. Va su e giù per lo stanzone impolverato. Rimuove, decisa tutti i lavori, persino le opere plastiche incomplete. Vittorio non ostacola la “pulizia” massiccia che Alma attua insieme alla titubante Lucrezia. Si limita ad osservarle dal trespolo su cui soleva sedersi per dipingere. Lentamente, una sorta di quiete interiore lo avvolge.
Man mano che lo studio si svuota, acquisisce consapevolezza, prende coscienza di ciò che sta accadendo. Intuisce che le cose stanno per cambiare davvero e se per un verso è arrendevole, dall'altro, le pareti spoglie, i ripiani vuoti e le orme chiare lasciate dai quadri sulle pareti gli trasmettono lo stesso sapore dei distacchi forzati. Dei suoi pensieri creativi rimangono solo impalpabili ombre di prodotti irrazionali, trafitti da pungoli d’acciaio in simbiosi con la calcina scrostata dei muri e sente un angosciante senso di solitudine. La sua poetica, in procinto di essere collocata in chissà quali luoghi, e magari, soggetta alle ipotesi sbrodolanti di tromboni, compiaciuti solo di esternare il loro sapere suffragato da citazioni e raffronti con questo o quell'artista, certi, di conferire spessore e continuità alla storia dell’arte, mentre lui, inebetito guarda le pareti spoglie e prende atto di essere caduto nella trappola. È affranto! Non si sente supportato dall'humus degli uomini che hanno scritto le pagine più belle dell’arte con passione e perseverante coraggio. Ha vanificato gl’insegnamenti dei Maestri. Non è servito a nulla conoscere le loro opinioni, gli stenti, le emarginazioni subite. Senz'altro sarà stata la stanchezza a porlo in uno stato di torpore rassegnato.

“Ma cosa pensi, che Van Gogh, Pissarro, Modiglioni e quanti hanno fatto la fame se avessero avuto la possibilità di vendere si sarebbero opposti? Il loro dramma consisteva nell'essere fuori dal mercato. Nessuno voleva i loro quadri. E tu che hai la fortuna di essere capito e apprezzato da vivo fai un sacco di storie”. –Lo ammonisce Alma leggendogli la delusione in faccia-
In effetti, non ha torto! Tuttavia, i rimorsi confermano l’impossibilità di violentare la propria natura; una testa quadra non può morire tonda; e pur considerando l’importanza dei meccanismi divulgativi, il rigetto assoluto della mercificazione dell’arte penetra nelle fondamenta dei concetti razionali fino a minarli con la stessa impetuosità degli esseri che sfidano le avversità per procreare. D'altronde, non è il primo e neanche l’ultimo a pensarla in questo modo: Piero Manzoni, con la sua “merda d’artista sottovuoto”, disorientò per un attimo il meccanismo commerciale che accompagna l’opera dell’artista, purtroppo, il sistema contorto della mercificazione è riuscito ugualmente a trasformare la protesta in moneta contante, dandola in pasto al miglior offerente. Ecco che, il pensiero propositivo si annulla. I mercenari versano sofismi sulle platee incolte e le danze continuano immutate.
Allora, -si chiede Vittorio, annichilito davanti alle pareti vuote- è giusto lavorare per pochi, assecondare i loro bisogni e lasciare all'oscuro le masse oceaniche perse nell'effimero sublimato dai venditori di fumo? No! Certamente no! Altrimenti, l’opera, scadrebbe nell'artigianato artistico d.o.c., in altre parole nel “fatto a mano” con accorgimenti tecnici apprezzabili dal punto di vista formale.
È necessario rompere il circolo vizioso costruito dagli imbonitori “colti” che, incollando citazioni ad azioni plateali, contrabbandano discrete decorazioni per sublimi opere d’arte. A questi signori l’evoluzione intellettuale, cui porterebbe la divulgazione corretta del pensiero artistico, non interessa granché; per loro conta la quantità economica ricavabile dall’immissione del prodotto manifatturiero nel mercato. L’assioma: fare per amore è uno scisma; un distacco dalla realtà, una frattura donchisciottesca operata dall’artista, cui si contrappone la pedante logorrea mistificatrice dei mercenari. Sono pochi a sostenere seriamente il linguaggio sublime dell’anima. Alma è una di queste; ma rimane una goccia nel deserto abulico del privato, sempre pronta a lottare contro le deficienze della divulgazione di un circuito ben delineato. E, se si stancasse di sostenere continue battaglie per eliminare i gravami eretti dal sistema? Tutto è possibile; e, anche se non accade, in ogni caso, le probabilità d’incontrare un’Alma per la maggior parte degli artisti sono esigue. In tal caso, per la divulgazione ottimale, è auspicabile l’impegno degli organi pubblici mondati dalle clientele e dagli affari di bottega; tuttavia, la storia c’insegna che ogni qualvolta un movimento di pensiero artistico o, l’artista stesso, si è messo alle dipendenze delle istituzioni, l’azione propulsiva iniziale, col tempo, si modifica fino a scadere nella faziosità. L’uomo si lascia contaminare dalla vanità del potere, mentre l’arte è libertà! Libertà di pensiero; libertà d’azione; amore incondizionato per la verità. Ecco perché, sarebbe auspicabile che gli organi di promozione culturale cedessero i canali idonei, ai creativi nella totale indipendenza dalle logiche del sistema. Annullare, quindi, il verticismo per fare cultura. Ma, i detentori sono disposti a perdere il controllo di questa consistente fetta? Certamente no! Altrimenti l’avrebbero attuato. Preferiscono elargire sporadicamente gli spazi pubblici ai decoratori della conventicola. Quindi, all’Artista non schierato, resta da risolvere in altro modo il dilemma così da non far patire la sua poetica.
“…Se per un attimo, poniamo la mente in stato di quiete e analizziamo le strutture intellettuali imposte dal sistema attuale, osserviamo discrepanze abissali tra teorie, proposte d'intenti e finalità reali del fare umano… -Non bastano le mie di congetture, anche i discorsi spocchiosi dei perditempo radiofonici devo sorbirmi?- S’interroga, Vittorio. E infastidito dalla cadenza saccentina dell’oratore radiofonico, si accinge a cambiare programma. Ma, quanto sente nel lasso di tempo che intercorre tra il pensiero e l’azione, gli fa cambiare opinione: Il mass-media per eccellenza, la televisione, ma anche voi della radio, anziché educare alla crescita, soggiogate le menti con lo stupidario commerciale. -…Però. Non sembra il solito spocchioso. Sentiamo che dice.- Le personalità deboli, si lasciano plagiare con estrema facilità, fino a diventare docili strumenti nelle mani dei guru mediatici privi di scrupoli. Ogni cosa può essere modificata, deformata, sublimata, dalle luci della ribalta, secondo il volere di chi tira le fila. Spesso, con studiata consapevolezza per accaparrarsi una rilevante fetta d'ascolto e quindi di consensi, si gira il mestolo nella minestra del malcontento grossolano o nelle eterne fobie collettive offuscando la verità. Indubbiamente, è più semplice demolire che edificare ma, grazie a Dio, non tutto è perfidia; d'altronde, da che mondo è mondo è sempre esistita la lotta tra il bene e il male, la qual cosa ha spronato l'uomo nella sua interezza, modificandolo. Il passaggio dallo stato primitivo a quello più evoluto, se, per un verso ha affinato i linguaggi formali, dall’altro, li ha assoggettati al potere economico. Per cui ogni giorno assistiamo alla soppressione del pensiero propositivo affidato ad un buon libro non stampato o l’oscuramento di un valente artista per semplici motivi di marketing. Dunque, come sovvertire queste anomalie?
Anzitutto col non dipendere dal mercato; rimettersi in gioco quotidianamente attraverso i comuni canali del lavoro così da non essere condizionati dalle richieste commerciali del prodotto artistico. Rischiare, quindi, in prima persona. Proporre il proprio lavoro con umiltà ed essere parte attiva nell’evoluzione del genere umano; altrimenti, il fonema: “Cultura”, buttato nel calderone della quotidianità, diviene specchietto per le allodole nelle vendite dei prodotti cosiddetti “artistici”. In effetti, è rarissimo assistere a dibattiti in cui emerge l’invito al dialogo, al confronto dialettico serio.
Spesso, gl’interventi telefonici sono filtrati dalla censura politica del palinsesto che magari impone all’attenzione degli utenti, operatori culturali trincerati dietro una maschera impenetrabile di onnisciente sapere, i quali, persi in concetti roboanti sembrano rincorrere chissà quale utopica città del sole e alla fine, miseramente, presentano una fattura altissima per la consulenza prestata.
Le azioni gratuite sono inesistenti nel mondo adulto. Allora, volgiamo lo sguardo nell’universo incantato della purezza; laddove si esterna d’istinto il sentire, per penetrare le parole non dette, siano essi silenzi poetici, o, urla rabbiose; cogliere gli aspetti reconditi dell’animo umano attraverso segni o macchie che, d’acchito, possono sembrare insignificanti se assoggettati ad un microcosmo gretto, condizionato dalla mercificazione inculcata dai media, ma che sono, invece, antitesi propositiva per una crescita armonica.
La versatilità creativa, la continua rielaborazione dei segni grafici, al di là di sterili quanto inutili disquisizioni intellettualoidi, conduce le menti “irrequiete” sui sentieri sublimi della ricerca artistica.” “È vero! Ma cosa pensa dei segni sulle facciate delle chiese, sui monumenti?”
“Penso che se gli amministratori facessero sentire la cosa pubblica bene reale di tutti e non appannaggio di pochi, questo non accadrebbe. Allo stato attuale, il ragazzo si vede tagliato fuori dalle scelte collettive e comunica il suo disappunto attraverso la forza emanata dalla grafia primordiale dell’uomo non contaminato dalla civiltà consumistica, la quale, porta non a tenere testa ad un mercato più o meno redditizio ma, all’esternazione di una presenza propositiva nella società. Ecco perché i writer’s, graffiano i muri delle città! Forti del fervore giovanile, vaporizzano spray, dalle sfumature soffici o dure, invadono aree proibite. Il filo di colore corre a tracciare evoluzioni. La volontà dei grafomani metropolitani, è quella di abolire il grigiore del cemento; dargli un’anima cromatica… contestare l’arroganza del potere. Affermare la presenza di menti fresche nella società! Contestare il lassismo delle menti piatte! Loro, non chiedono spazi idonei, ma la fantasia al posto del grigiore metropolitano. E chi accetta spazi predestinati non è un “egocentrico dissacratore” ma semplicemente il prodotto vanesio della società. Coloro che hanno proposto gli spazi non capiscono niente del movimento; la loro analisi si ferma al dato immediato, all’atto vandalico fine a se stesso e, di conseguenza, di avere a che fare con dei ragazzacci da rabbonire. Sia ben chiaro ci sono anche questi! Tuttavia, credo che se ci fosse un reale coinvolgimento dei giovani…”
Da qualche giorno la problematica dei writer’s appassiona gli ambienti cittadini. Le tavole rotonde si susseguono. Le parole ronzano nell’aria; rimbalzano sui muri vuoti, sbattono nelle tempie. Mortificano o esaltano teorie e ovvietà.
Vittorio non presta attenzione alle parole degli oratori. È all’opera. Non sa neanche lui da quando ha in mano la pennellessa da imbianchino. E neanche quante volte l’ha intinta nei barattoli dei colori. Quante volte ha annullato o esasperato il gesto. Il dato è visibile. Le campiture cromatiche si susseguono. Le impronte lasciate dai quadri sui muri non esistono più; lo spazio rivive impetuose armonie. I fantasmi sono cancellati. Al loro posto un’opera prorompente materializza pensieri carichi di tenacia e passione poetica. Esausto, butta i pennelli nel lavandino. Sbottona il gilet; asciuga la fronte con il dorso della mano. Lancia un’occhiata all’orologio: “Le tre del mattino.” Chiude sommariamente bottega e va a casa.
Ninì è a letto. Dorme con un libro sul grembo, il sonno l’ha colta mentre leggeva. Vittorio le toglie il libro delicatamente. Si spoglia. Spegne l’abat jour e s’infila piano sotto le coperte, attento a non svegliarla. Ma: “Che cosa è successo, come mai così tardi?”- chiede Ninì - “Ho sistemato un po’ allo studio. Alma e Lucrezia hanno preso tutti i lavori…ma ora dormiamo ti racconto domani, buona notte.” Vittorio è spossato; ciononostante il sonno tarda ad arrivare. Fissa la sveglia sul comò: le tre e quarantacinque. Quarantasei…quarantasette… quarantotto…
Un cupo dolore alla nuca lo pone in uno stato di dormiveglia sgradevole. Apre la bocca. Le parole assumono aspetti visibili, trasmigrano, diventano figure incerte. Interagisce, diventa parola anche lui; un sonno profondo lo ingoia. Il dialogo continua. Dentro e oltre il sogno. Si sveglia di soprassalto. Allunga la mano: “Buon giorno papà hai dormito bene?” “Ciao amore, dov’è mammina?” “E’ andata a comprare il pane, mi ha incaricato di stare attento a te.” “Grazie amore; hai fatto colazione?” “Sì ho preso il latte stamattina. Tra poco mangiamo la parmigiana di nonna” “Come la parmigiana di nonna? Che ore sono” “Le 12 e 30”
–Risponde dall’altra parte della casa, Ninì - “Ti ho lasciato dormire, hai fatto troppo tardi stanotte”
Vittorio infila la vestaglia; prende Valerio in braccio e va in cucina. Ciondola qualche attimo sulla poltrona a dondolo. Valerio gli porge la tazza del caffè, ormai freddo; lo beve e si trasferisce in bagno. Scavalca la cesta dei panni sporchi e apre l’anta dello stipetto. Dispone il necessario e si accinge a fare le abluzioni mattutini. Lentamente, gli affiora alla mente il sogno della notte: sta percorrendo un sentiero costeggiato da alberi dai grossi fusti tagliati i cui rami recisi formano un groviglio impenetrabile. Di fronte, oltre il precipizio, si ergono i palazzi ottagonali di Via Plutino e dietro, sull’altura, le mura di cinta dello stadio con le torrette metalliche dei riflettori puntati a illuminare una partita. Sente le urla dei tifosi; ma lui è impossibilitato ad entrare. Riconosce di trovarsi nella pineta di Siano, ad est di Catanzaro. I ceppi tagliati hanno un’autonoma intelligenza; lo avvinghiano e nel momento in cui riesce a liberarsi, fatti pochi passi, lo imprigionano nuovamente. Col diradarsi del vapore, anche i ricordi diventano fiacchi. Scava ancora nella memoria, ma null’altro gli sovviene. Ricorda solo le urla d’incitamento dei supporter e la luce accecante dei riflettori del “Ceravolo”. Probabilmente, l’inconscio ha visualizzato, attraverso la simbologia dei messaggi onirici, la sofferenza interiore del suo essere sensibile provocata dallo svilimento dei concetti ideologici, da lui coltivati, violentati dall’impersonale determinazione del pensiero razionale comune. Ma non ha tempo per analizzare i dati. Valerio lo pressa da vicino.
“Papà mi porti al parco?, mi porti al parco? Dai vestiti e andiamo al parco dai papà ti prego! I miei amici mi hanno detto ch’è bellissimo che ci sono tanti giochi nuovi e pure le aquile i condor…” “Sì amore, dopo pranzo andiamo tutti al parco.”
Vittorio non sa dirgli di no; e, anche se a lui, specie in questo momento, non interessa nulla di vedere il nuovo parco, lo accontenta di buon grado.

VIII

Quante peripezie per amore dell’arte! Era il 1975:
Lo spago, che teneva legate le tele, serrava le mani di Vittorio, tuttavia, nonostante il dolore, procedeva inflessibile verso via dei Servi. Quanti anni sono passati! Aveva preparato con cura i due pacchi contenenti venti oli di media grandezza; il trasporto delle tele, non avrebbe dovuto creare problemi, eppure, passo dopo passo, le corde si conficcavano sempre più nella carne. Una breve sosta, per riattivare la circolazione sanguigna alla punta delle dita e via!…“Firenze, la culla dell’arte!”.
Nell'aria ancora fredda della notte appena trascorsa, tra l’odore del grasso frammisto a quello dei carburanti d’alcune locomotive e il brulichio disordinato dei viaggiatori, Vittorio annusa l’atmosfera sonnacchiosa della stazione. I ricordi riaffiorano. Sorride melanconico alle aspettative deluse di allora. E intanto una voce metallica annuncia: “Santa Maria Novella Stazione di..” Districatosi dalla calca, Vittorio raggiunge l’uscita. Poche cose sono cambiate dal ’75. Solo l’albergo mostra i segni di un recente restauro. Esibisce i documenti al portiere: “Al secondo piano. La numero 108, signore.” E aiutato da un inserviente si dirige all’ascensore. Nell’abitacolo bianco il profumo di lavanda alla rosa è intenso. Il suono del carillon anticipa di pochi secondi l’arrivo al piano; la voce di un’hostess cibernetica ne da conferma. Le porte si aprono. Il corridoio è ricoperto da una guida in moquette color ruggine e, attaccate al muro, le targhette in ottone indicano la collocazione delle camere. Vittorio segue le indicazioni; si ferma, infila la card nella toppa elettronica e uno scatto secco accompagna l’apertura della porta col numero 108. Entra. Alloggia la chiave elettronica nella centralina d’ingresso. La stanza s’illumina. Simultaneamente, un messaggio di benvenuto lampeggia sullo schermo del televisore insieme ad altri suggerimenti della direzione. Poggia il borsone affianco al comodino e si siede sul letto. Sbottona soprabito e giacca; li adagia sulla spalliera della sedia e si stende. La sensazione di vuoto mentale l’intontisce. Avverte dolori dappertutto: improvvisi quanto fulminei crampi al ventre, accompagnati da sudori freddi, lo prostrano fisicamente. Predispone l’occorrente e s’infila sotto il getto d’acqua calda. Lentamente, l’organismo riprende i ritmi abituali. Rimane avvolto nel lenzuolo da bagno qualche minuto; sfrega i capelli, tampona il corpo e, ritemprato, si veste. L’ascensore è rimasto al piano. Scende. Alla reception, un giovane sui trent’anni, ossuto e alto, naviga nella divisa d’autista. I suoi movimenti goffi fanno ballare il vestito celeste. Durante il tragitto parla a lungo. Incurante delle risposte stringate di Vittorio, intavola un soliloquio demenziale sovraccarico d’ammiccamenti, come se si conoscessero da tempo.
Alla fine di una lunga strada piana e diritta, costeggiata da pioppi, l’autista, ferma la macchina, apre con un complicato telecomando il cancello sorvegliato da telecamere e da altri sbarramenti elettronici, e riparte. Giunti nello spiazzo di una cascina, senz’altro appartenuta a nobili casati, il conducente arresta l’auto. Apre la portiera ed esclama: “Capolinea!”. Vittorio scende; si guarda attorno e aspetta che l’autista faccia strada. Seguono il percorso sinuoso di un vialetto bordato da piantine di mirtillo e sfociano nel patio. Gli arredi, comodi ed eleganti, anticipano i fasti di una casa arredata con gusto. Dall’altro lato, oltre un lieve pendio verde, seminascosti dalla vegetazione s’intravedono due gazebo di legno. Vittorio osserva con attenzione la natura e gli arredi dell’antico casolare; la tranquillità effusa dai luoghi lo assorbe a tal punto da non avvertire l’arrivo del padrone di casa. “Buon giorno, ha fatto buon viaggio?” “Buon giorno ingegnere. Sì, diciamo di sì.” “Problemi?!” “No, niente di preoccupante, solo leggeri disturbi causati dallo stress.” “Ah, lo stress! E chi è immune di questi tempi; ma venga, prego. Ha già fatto colazione?” “Non si disturbi, ingegnere, ho fatto colazione.” “Un caffè? Sì almeno questo…Marta prepari due caffè. Allora, caro Vittorio, veniamo a noi. Andrea, mi ha detto di mettermi nelle sue mani creative. Come già sa, dobbiamo ristrutturare la villa. A dire il vero mi ero rivolto ad Andrea, sa, è un vecchio compagno di studi, ma lui, ha parlato tanto bene di lei; oltre tutto, mi ha detto che è un artista; quindi chi meglio di lei può valorizzare l’esistente.”
-Andrea! Da qualche tempo i loro dialoghi hanno perso freschezza; sono stringati, parole a mezze frasi; dice e non dice. Sviluppano una strategia e quando sembra tutto definito cambia idea. Decisamente sta mostrando un altro aspetto, totalmente diverso da quello conosciuto da Vittorio. Di fatto, Andrea è indecifrabile. Il suo modo di fare sfugge ad ogni logica. Un enigma, insomma che lascia sconcertati. Eppure, fino a qualche tempo prima, se Vittorio avesse dovuto scommettere su di lui, sulla sua genuinità, la sua trasparenza, lo avrebbe fatto ad occhi chiusi, ma adesso i dubbi lo frenano. Però, in quanto a complimenti, Andrea è sempre molto anzi eccessivamente espansivo: che lo faccia per vanagloria? Per compiacersi di essere a capo di una équipe invidiabile? Mah, alla luce dei nuovi riscontri, tutto è possibile; la vanità e il voltafaccia non sono prerogative rare in questo mondo.-

Ultimati i convenevoli, si apprestano a visionare i luoghi da ristrutturare. Da una prima analisi, il fabbricato, a causa del lungo abbandono, si presenta povero di fregi e decorazioni, in compenso, l’architettura conserva quasi intatta la solida imponenza delle costruzioni in pietra. Vittorio annota sulla pianta planimetrica alcune considerazioni; li arricchisce con degli schizzi. Scatta delle foto e, ultimato il sopralluogo tecnico, chiarisce alcuni aspetti con il padrone di casa. Il dialogo forbito del suo interlocutore è leggermente incrinato da un’indefinibile ombra che spegne il sorriso stampato sul volto avvezzo ai convenevoli. L’osservazione di Vittorio viene fugata dal bussare discreto. Sulla porta dello studio, una ragazza dai modi dolci, a bassa voce e con un italiano stentato, li prega di spostarsi in camera da pranzo.
La tavola occupa il centro di un vasto e luminoso salone e, sopra, un imponente lampadario spande sui cristalli delle vetrine e sugli argenti una luce rosata. Di fronte al camino, sul tappeto, una bambina gioca col gatto e poco discosta dal divano una donna, vestita di nero, è assorta nella lettura. Scuote leggermente la testa nell’atto di riassettare i capelli. La chioma nera e soffice si ricompone al passaggio della mano; chiude il libro, lo adagia sul tavolinetto in ciliegio affiancato al divano e si alza. Va incontro agli ospiti. Porge la mano a Vittorio che china leggermente la testa. Non un filo di trucco sottolinea ciò che madre natura le ha donato. Gli occhi celesti, incastonati nell’ovale d’ebano del viso, emanano una luce paradisiaca. È veramente bella! Vittorio ne è affascinato. “Il pranzo è cucinato esclusivamente con prodotti biologici, - informa la padrona di casa; - la manipolazione genetica, ha stravolto i processi riproduttivi. Un tempo si diceva semplicemente “naturale” per indicare un alimento coltivato secondo i sani criteri tramandati dai nonni. Ora per distinguerli dagli “oggiemme” dobbiamo leggere sulle etichette “proveniente da agricoltura biologica”. Sicuramente, vista l’aria che tira nel mercato alimentare, per fare buona impressione sui consumatori, anche gli eufemismi devono avere una certa solennità. Aiutano la ricerca per debellare la fame nel mondo, dicono… e noi, ignari, ingeriamo in un sol boccone, melone e kiwi, fragole e salmone, pomodori e chissà quale altro incrocio!… Beata innocenza! –Sospira. Lancia uno sguardo tenero e avvolgente alla figlia; poi, continua a esporre le sue ragioni- Vede, caro Vittorio, sono convinta che il paradiso Terrestre esista davvero, ma, non è in cielo o chissà dove: è qui vicino a noi. Nelle menti non contaminate dalla volgarità e dal potere dei media che induce all’egoismo… purtroppo, sono pochi i puri di spirito!” La discussione scivola secondo i canoni, come il resto, d'altronde. Dopo il sorbetto, la signora, fa cenno alla colf di avvicinare il carrello dei dolci. Taglia con movenze lente e misurate delle porzioni di pasta sfoglia; le sistema con fare sacrale nei piatti e lascia che siano i domestici a offrirli.
Vittorio getta un’occhiata oltre lo spiraglio della tenda. L’infisso gocciolante di brina offusca la visuale. Può solo immaginare l’atmosfera plumbea del parco, ma preferisce farne a meno. Lascia scivolare lo sguardo all’interno; sui mobili, le suppellettili e le persone. La bambina, seguita dal gattino, esce dalla sala; si sposta nel salottino. Anche loro si apprestano ad alzarsi da tavola.
È stata una giornata pesante per Vittorio; sente la necessità di riposare ed esprime il desiderio di far ritorno in albergo. “Ma no, Vittorio, non sia mai detto! Ho mandato Federico a saldare il conto e prelevare i bagagli. Ti ho fatto preparare la stanza rossa; così avrai la possibilità di studiare comodamente i progetti. Spero che per te vada bene…” “Ti ringrazio, Dario, ma non è proprio il caso; ho già la documentazione fotografica a supporto del lavoro da sviluppare e in ogni modo, né io e tanto meno Andrea abbiamo preventivato una mia permanenza. Il progetto, lo sviluppo giù in Calabria e non appena avrò approntato qualcosa d’interessante manderò una e-mail.” “La prego signor Vittorio, non dica di no; avrei sommamente piacere che lei sviluppasse qui i progetti.” “Se fosse indispensabile, accetterei volentieri signora Nilde, ma ho tanto da fare allo studio, senza contare che la mia presenza sarebbe un aggravio economico inutile…” “Non dica così. Per noi è un piacere averla ospite” “Ma quale ospite! Considerati a casa tua!” “Non posso, proprio non posso. Mi dispiace.”

La stanza rossa, in legno di ciliegio, è accogliente: trasmette calore. Le doghe del parquet creano geometrie sanguigne, interrotte dal letto in ottone, dall’armadio e dai comodini in stile liberty. Vittorio apre la ventiquattrore, ordina alcuni appunti sullo scrittoio, avvicina la savonarola, si siede e prima d’iniziare a visionarli chiama casa. Rende partecipe Ninì del tentativo d’intrattenimento dei Nordacco e lei, di rimando, lo esorta a tornare il più presto possibile. Sono le sedici. La luce del giorno trasmigra nei tenui bagliori notturni. Vittorio accende il lume: i vetri del cappello Tiffany trasfondono calde armonie cromatiche sulle pareti e, sotto, il cono rosato illumina i fogli sul piano.
"Permesso?” “Avanti!” “L’ingegnere l’aspetta nello studio.” “Grazie, dica all’ingegnere che arrivo subito”.
Dario e Nilde visionano vecchi progetti; riviste di restauro e campioni di materiali da utilizzare. Alcuni fogli invadono il tavolo da lavoro, altri, raccolti male, adagiati sul ripiano della libreria accanto al faldone in disordine lasciano intuire il lavoro compiuto dai due. Vittorio si unisce a loro nelle valutazioni. Le idee sono vagliate ampiamente e il da farsi è focalizzato al meglio con degli schizzi. “La cena è servita signora.” Comunica sulla soglia la cameriera. “Il tempo è volato!” –Esclama la signora Nilde-

Ora, l’atmosfera è diversa, più solare. La signora Nilde è meno tesa e Dario non ha più quella smorfia di cordialità formale stampata sulla faccia. Il dialogo è schietto. Parlano della ristrutturazione per tutto il tempo della cena e raggiungono una perfetta sintonia. La volontà di tutti è di salvare l’esistente senza alterarlo con aggiunte stravaganti, estranee alle linee sobrie dell’architettura rurale. Il tocco sordo del pendolo li avverte del fluire inesorabile del tempo: “…S’è fatta mezzanotte! Mai come questa sera il tempo è volato così in fretta, vero Dario?” “Sì cara. Direi che è giunto il momento di non massacrare più Vittorio.” “ Sì, hai ragione. Allora, buonanotte Vittorio, a domani…” “Buonanotte”
Il materasso possiede la giusta consistenza; eppure, nonostante le buone caratteristiche tecniche, anzi oserei dire terapeutiche, dato il massaggio di cui beneficia il corpo, Vittorio, non riesce a raggiungere il sonno rigeneratore. Accende la televisione. Esclude l’audio e lascia scorrere le immagini, confidando nell’effetto sonnifero.
Il tempo scorre lento rispetto alle immagini. Gli occhi, anziché chiudersi si spalancano davanti alle visioni che accompagnano le notizie. I flash si susseguono: politica; gossip; disordine pubblico. L’ultimo comunicato è allarmante. Vittorio alza discretamente il volume ma afferra solo poche battute. Passa in rassegna i canali. Niente! Insiste nello zapping. Apre la pagina del televideo. Scorre l’indice; la ricerca è lenta. Posiziona il cuscino dietro la schiena e aspetta…
Il canto deciso di un giovane gallo irrompe nella stanza a comunicare la nascita del nuovo giorno.
Dopo i primi attimi di smarrimento, si alza, va alla finestra, spalanca le imposte: uno strato sottile grigiastro si leva dai prati e galleggia impalpabile all’altezza di mezzo metro dal suolo. Chiude le imposte e riprende a fare zapping: pubblicità oscene per adulti; vendita di quadri; cartomanti… “Assurdità volgari, tracotanze e oscenità che dovrebbero mortificare gli utenti; -commenta Vittorio- ma, giacché lo stupidario mediatico, riversa impunemente la spazzatura del regno indolente dei signori dell’etere significa che non offende, anzi, è il degno prodotto del nostro tempo.” Vittorio scrolla la testa. Visita tutti i palinsesti e finalmente: “…sciopero ad oltranza per il mancato rispetto degli accordi tra le parti sociali…” -Le immagini, colgono appieno il malessere degl'incolpevoli utenti prigionieri della strategia dialettica delle parti che, impotenti, bivaccano nelle sale d’attesa.-
“Non ci voleva proprio! Chissà quanto durerà.”
-Commenta Vittorio. Chiama casa. Il telefono squilla a lungo- “…papà, devo fare cacca, scusami, mi scappa…ti passo mamma.” “…Ciao, hai visto il tigì? Speriamo che arrivino presto ad un accordo, altrimenti non so che fare, va a finire che sarò costretto a restare qua” “ Ma no, vedrai che finirà presto, non stare in apprensione non può durare molto.” “È facile a dirsi! Hai visto come hanno bloccato le stazioni? A chi giova il braccio di ferro, perché non trovano un accordo senza costringere i lavoratori ad atti estremi?, non credo che a loro piaccia prendere in ostaggio gli utenti e trattare sulla pelle…”
La notizia degli scioperi dei ferrovieri è preoccupante. Vittorio sa bene che il problema può diventare lana caprina, per cui valuta altre vie per tornare in Calabria.

“Buon giorno, signore, la colazione è pronta. I signori l’aspettano nella sala da pranzo.”
“ Grazie”.
“Oh, buon giorno Vittorio, hai sentito la notizia? Ora sei costretto a rimanere con noi!” “Mi auguro di no! Comunque più tardi chiamerò in agenzia, chissà forse c’è qualche pullman, un aereo...” “Nonononò. Niente di tutto ciò. È la provvidenza che è venuta in soccorso. Sembrerò fatalista ma secondo me qui c’è la mano del destino. E comunque consentitemi di esprimere la mia opinione in merito, sì non tutti i mali vengono per nuocere, vuol dire che doveva andare così! Vuol dire che Vittorio deve restare e che lo sciopero è un segnale chiaro: la sua presenza è più importante qui che altrove… sì è bello potersi avvalere della sua presenza Vittorio! grazie grazie Signore. Avremo la possibilità di valutare nei minimi particolari ogni cosa e visitare insieme i fornitori. Propongo d’iniziare oggi stesso.” “Cara, non assillare Vittorio; deve fare ulteriori studi analitici prima di arrivare a suggerire gli arredi. Facciamo le cose con calma. Se Vittorio è d’accordo…” “Bèh, a dire il vero mi auguro che si sblocchi qualcosa al più tardi per domani sera; come dicevo ieri, non è nelle mie intenzioni fermarmi molti giorni, oltretutto, non è necessario. Anche volendo non ho portato granché di bagaglio.” “Eh caro Vittorio, si vede che non conosci l’evolversi di certe rivendicazioni: qualche anno fa, riuscirono a bloccare tutti i mezzi di comunicazione, non solo i treni; anche chi non aveva intenzione di parteciparvi, si trovò coinvolto suo malgrado a causa dello sfasamento degli orari. Credimi ti devi rassegnare. Io personalmente ti suggerisco di rimanere qua piuttosto che trovarti bloccato in chissà quale luogo...” “ Grazie per l’invito, ma preferisco rischiare! Magari, in seguito, avremo modo di programmare un soggiorno più lungo.”


IX

La mente sgombra e bianca, simile alla neve soffice caduta nella notte sui rami degli alberi spogli della campagna circostante, trova oblio nel silenzio irreale del paesaggio anomalo. Vittorio, percorre la statale 19 delle Calabrie in compagnia di una quiete solitudine. La neve immacolata e i pennacchi ghiacciati conferiscono alla natura mediterranea un’atmosfera da fiaba: alberi di cristallo, case dai tetti di panna montata, grassi bovini sbuffanti; corvi neri, sui prati innevati, alla ricerca di cibo. Il divagare mentale, suggerito dal candore abbagliante, è interrotto dal trillo perentorio del telefonino… “Professore, volevo comunicarle che le hanno riconfermato il contratto. Quando può venire per la firma?”…
“Non saprei dirle; ora sono in macchina. Possiamo risentirci tra qualche ora?…La ringrazio, a dopo.”
I corvi…i corvi di Van Gogh, … Nonostante fosse il luglio del 1890, i colori del campo di grano con corvi non trasmettono la sensazione di un’atmosfera luminosa e solare ma assumono toni drammatici, cupi; forieri di tristi messaggi. I corvi. Oggi come allora volteggiano sulla scena riproponendo il dramma esistenziale di un uomo sensibile. Un uomo emarginato da una società decadente, salottiera e conservatrice, ostinatamente chiusa all’evoluzione dei linguaggi dell’arte. Lo stesso ambiente culturale che derise gl’impressionisti, fu oltremodo snob nei confronti di questo pastore mancato e lo indusse a vivere ai margini di una Parigi opulenta. Parigi, città, magnanima con gli accademici e avara con chi esprimeva, aldilà degli schemi formali, il sentire dell’anima fino a traslarne la sofferenza, il disagio esistenziale: Parigi, talmente cieca da non vedere “l’epilogo risolutorio di un’epoca” e distratta a tal punto da non avvertire il grido di dolore emanato dalla personalissima grafia di grandi artisti. Scrivere…scrivere con grafia nuova, rivoluzionaria, se solo qualcuno avesse saputo leggere… Invece, come accade in tutte le epoche, e la nostra non è immune, la ricerca ha avuto pochi sostenitori e tantissimi avversari. Possibilisti e catastrofisti, schierati l’uno contro l’altro col fermo intento di eliminare a tutti i costi e con qualsiasi mezzo gli avversari. Perché, perché gli esseri sensibili devono soffrire quando vestono pelle umana! È veramente così difficile trovare il giusto equilibrio tra materia e spirito? Nelle realtà non contaminate dai sofismi, la cultura tribale, tiene in gran considerazione gli anziani ed è solidale con tutti i membri della comunità. Dipingere non è una perdita di tempo e non si limita a semplice pratica decorativa. Non è inserita in monografie e non ha valore commerciale. Non è body art ma è magia, rito propiziatore, e l’artista è l’artefice illuminato dalle divinità procreatrici. I giovani si accostano fiduciosi ai vecchi per chiedere consigli e dissetarsi alla fonte della saggezza; i fanciulli sono curati nello spirito e nel corpo dalla collettività intera; sono educati alla vita e rispettano la vita. Magari nessuno parla di ecosistema o di catena alimentare ma sanno per certo che la loro esistenza e quella degli altri esseri viventi, animali, piante e minerali compresi, dipende dall’equilibrio naturale delle cose, perciò, attingono con rispetto il necessario dalla natura e sono immuni alle fobie che inducono all’accumulo di beni superflui. Ma, bando ai sani insegnamenti, il cammino dell’uomo è accompagnato da contraddizioni epocali; ognuno di noi ha itinerari di vita diversi; ogni epoca ha percorsi differenti…neanche i sodalizi riescono a cambiare il corso degli eventi… vrrvrrr vr… “Sì pronto… sto arrivando… ’ste curve mi faranno perdere una mezz’ora al massimo… Sì!, iniziate pure i sondaggi. Va bene ci vediamo al bar della piazza.”
Gli eventi!…alcuni, sono costruiti ad hoc altroché!, se poi, vi sono interessi economici da tutelare, ogni mezzo è lecito. La parola, la carta stampata, la televisione, concorrono a catalizzare le singole attenzioni in un unico oceanico fermento, pronto alle sollecitazioni più disparate. Gl’indirizzi dati dai mezzi di comunicazione di massa diventano panacea uniformante che allontana gl’individui. La maggior parte delle persone diventa irriconoscibile all’idea di affrontare l’ignoto, il nuovo, il diverso. Le ipocrisie, i pregiudizi, alimentati da una visione distorta li inducono alla chiusura mentale; a stare costantemente all’erta e magari diffidare dei buoni propositi e sottacerli. E lo fanno! Li sottacciono con una leggerezza inaudita. Probabilmente per paura di fare brutte figure preferiscono uniformarsi. Rimanere nella massa anonima, piuttosto che rischiare in prima persona. Eh, sì!, offuscare l’immagine, perdere credito agli occhi dell’opinione pubblica, in parole povere: fare una figura di merda! Gli scaltri e navigati rampanti, non la faranno mai una figura di merda!, per evitarlo, scherniscono i poeti e diffidano di chi innalza ostacoli etici: la morale intralcia il cammino: ai sognatori gl’inutili e infruttuosi vagheggiamenti.
Abbiamo a che fare con una società mediatica sovvertitrice dei valori. Solo gli eventi mondani e quanti riescono ad inserirsi nel carrozzone multicolore della televisione fanno testo. La tv riesce a manipolare le menti; fa accettare le cose più assurde: pance flaccide trasbordanti da striminzite magliette, ombelichi al vento sulla neve, maglioni con una manica d’inverno o alla dolce vita d’estate. Assurdità. Assurdità tramutata in logica stravagante appariscenza. Non conta più la durata, la praticità di un capo. Tutt’altro! L’economia necessita di consumi veloci. Chi non sta al passo coi tempi è tagliato fuori dal beneficio. Allora, ai nastri di partenza per essere i primi; mostrarsi; competere e vincere…
Così facendo, il vicino di casa è un antagonista, l’extracomunitario un nemico, così pure chi professa una religione differente, chi ha i capelli neri, gli occhi a mandorla, blu, verdi… fin quando arriva l’elemento livellatore per eccellenza: la morte!, ma, ancora non è finita; anche nell’ultimo commiato, avverrà l’ennesimo distinguo, per piaggeria, narcisismo o altre necessità terrene nei confronti dei superstiti.
Superata l’età della purezza, il materialismo, condiziona le azioni dell’uomo, convoglia ogni intento all’accrescimento del potere economico e disimpara la poetica di un sorriso.
Questo, purtroppo, il leitmotiv dei giorni nostri.
Il consumismo, oltre ad alimentare le frustrazioni, è uno schiaffo alla povertà; un oltraggio ai popoli affamati. Tuttavia, all’interno delle civiltà evolute si propagano fermenti positivi in contrapposizione al dilagare effimero.
Gli esseri indifesi, rispondono con una semplicità disarmante ad una gentilezza; gli occhi s’illuminano al passaggio lieve della mano sul viso… Vorrei che la gente dicesse di me: è stato un uomo di cuore, buono e sincero. Il resto non conta. È vanità.


Vittorio, sospende i pensieri. Accosta la macchina al muretto che delimita lo slargo irregolare dallo strapiombo vertiginoso. Spegne il motore, raccoglie i fogli fuoriusciti dalla cartella e scende. Davanti a lui, l’immensità del cielo e, dietro, alle sue spalle, rassicurante, la muraglia di case basse, costruite con pietra e cocci, segue il declivio fino alla sommità del monte. Da una feritoia del muro in pietra viva, un rigagnolo precipita sulle rocce sottostanti. La piazzetta a forma d’imbuto è quasi deserta, solo due ragazzi, seduti a cavalcioni sul muretto, scrutano il forestiero. Due, tre, quattro passi, ed entra nel bar. In fondo alla saletta, un gruppetto di persone gioca a carte. Ubaldo, il capo mastro, parla con alcuni operai. Al bancone, un uomo visibilmente ubriaco piange. Il barista, saluta il nuovo avventore; si rivolge ai forestieri e chiede: …Cosa vi porto? – e senza attendere l’ordine, li tira a sé come se li conoscesse da sempre e sussurra- È stato accusato di stupro dalla figlia, ma non è vero niente. È tutta una montatura progettata dalla moglie: una vera strega! Per non dire un’altra parola, ma questa è una storia che non vi può interessare. Ora vi porto i vostri caffè! Sapete…- aggiunge chinandosi su Vittorio - nonostante la figlia abbia ritrattato, i giudici non le credono. – Voglioso di dirla tutta, tira una sedia dal tavolo vicino; si mette comodo tra loro e, con fare da cospiratore, commenta: “Soffre; e pensare che aveva un mestiere invidiabile: …faceva delle decorazioni…ma da quando è successo il fatto sta sempre ubriaco!” “Beh, se può interessargli, noi cerchiamo artigiani per un lavoro da fare qui in paese; chissà, a volte l’impegno mentale può essere d’aiuto. Io mi chiamo Ubaldo. Sono incaricato a trovare personale, spargete la voce.” Come d’incanto, da lì a poco, una folla disordinata ma quieta si accalca davanti al bar per proporsi ad Ubaldo. L’ubriaco si alza. Poggia le mani ai tavoli. Temporeggia fino a trovare un precario equilibrio e raggiunge l’uscita barcollando. “… la mia vita è stroncata dalla cattiveria umana. Quella puttana mi ha rovinato. Ha buttato fango sulla mia persona. Qualcuno mi ha maledetto… mi hanno fatto una fattura sì sì ‘na fattura mi hanno fatto. Fetenti! Ho la vita troncata dalla malvagità del mio stesso sangue… infami…sono degli infami… ajiu a vita ciuncàta da mpamità do sangu mia stessu!” –Continua a ripetere, l’ubriaco mentre si fa largo tra la gente-
Senza dubbio, i luoghi d’origine trasmettono sensazioni impareggiabili legate a storie colme di affetti; consolidate dal legame atavico con la tradizione dei padri; ma lui, povera vittima, cosa lo tiene legato ai luoghi di una cacologia infame germogliata nelle sua stessa casa? Perché non va a rifarsi una vita altrove? Altri lo avrebbero fatto. Lui no. Lui vuole riscattare l’onore. Camminare a testa alta nei luoghi che lo hanno visto nascere. E, sofferente nell’anima, rimane nel suo ambiente circondato dal dubbio dei compaesani. Intuisce di dovere trovare una dimensione diversa: una sorta di equilibrio interiore che astrae dalla materia pur vivendola. Solo così può superare i drammi reali o fittizi e non lasciarsi imbrigliare dai feticci effimeri. Vorrebbe godere della quotidianità senza lasciarsi contaminare dalla cattiveria ma non ce la fa: è troppo provato dagli eventi. È debole; perciò si ubriaca. Cerca oblio e sostegno nell’alcool nell’attesa che qualcosa cambi. Deve aspettare. Lui lo sa; e, sofferente, aspetta. Il tempo è un galantuomo; sistemerà ogni cosa. Ne è certo!
Sono le 16; è quasi buio. Vittorio ridiscende a valle. Il percorso è stretto e tortuoso. All’uscita d’ogni tornante le case del paese suggeriscono geometrie nuove. La successione dei piani prospettici sviluppano analisi poetiche interessanti, cariche, non solo d’esteriorità plastiche ma, soprattutto di narrazioni umane, alimentate fin dalla notte dei tempi dall’amore per la propria terra da donne e uomini arroccati su nidi d’aquile irraggiungibili. Le case, addossate come a sorreggersi vicendevolmente cambiano forma repentinamente; ingoiano stradine anguste; aprono breccia fino a perdersi oltre i castagni.
“Sì, chi parla?” “Bravo! Neanche il mio numero riconosci?” “Scusami Alma sono in macchina: novità?” “Un successone, ti dico. Abbiamo piazzato tutto! Urgono nuovi lavori, tu come sei messo?…” “ ?!…Come sono messo sono mesi che non metto piede allo studio, e poi, sai bene che non lavoro a gettoni!” “Sei il solito! Quando la smetti di fare lo stupido?! Questo è il tuo momento! Vedi di sapertelo gestire.” “Alma, non è da te fare questi discorsi; che ti succede? Vuoi anche tu l’artigianato d’autore? S’è questo che vuoi, dimmelo! Da parte mia chiamo subito Andrea, gli dico che non lavoro più con lui, così inizio a pianificare la mia vita in funzione dei tuoi voleri…Comunque gli accordi erano diversi.” “Ti ho detto…vvrr vvrrr” vvrrr…vrrr
L’assenza di campo, critica in alcune zone montane, interrompe l’insorgere della baruffa verbale. Ma Alma non demorde. Insiste. Insiste, incurante dell’anonimo messaggio che ripete: il cliente da lei chiamato è al momento irraggiungibile. Nel frattempo Vittorio esce dalla zona d’ombra. Alma tira un sospiro di sollievo: il contatto è ristabilito. Il led rosso lampeggia, Vittorio lo ignora; getta un’occhiata sul sedile: il telefonino sembra uno strano giocattolo impazzito: lo lascia vibrare. Non vuole ricominciare il discorso interrotto dalla provvidenziale assenza di campo. Ma, il ronzio cresce d’intensità. Alma, insiste fino allo sfinimento. Vittorio esclude il segnale di chiamata e si concentra nella guida. Il telefono tace. Vittorio parcheggia la macchina. Sale al secondo piano; e lì, Concetta, la segretaria, fresca d’istituto di bellezza, ascolta gongolante il chiacchierio di una signora. Vittorio non può fare a meno d’osservala: le gambe leggermente flesse, seguono il ritmo delle parole pronunciate con accento tipicamente nostrano. Perché pende dalle sue labbra? –si chiede Vittorio- Conoscendola, o, si sta beando nel vestito adulatorio che la signora le starà cucendo addosso, oppure è un personaggio che lei ritiene importante. Ancheggia da ferma, ha lo sguardo vitreo sembra in trance. Vittorio, gira attorno alle due donne ed entra nello studio. Andrea, è al telefono; gli fa cenno di sedersi. Mette giù. Si aggiusta nella poltrona; tira sù le maniche della camicia. Si passa le mani sulla faccia e rivela i suoi timori:
“Qualcosa non va!…devi andare a Firenze, Dario ha urgenza di vederti; organizzati per partire al più presto altrimenti perdiamo il lavoro.” Conclude, eludendo ogni legittima richiesta di chiarimenti.
La perentoria, quanto improvvisa notizia getta ombre in casa di Vittorio; a nulla vale ripetere che si tratta solo di pochi giorni, il malessere è lì, tra loro. Traspare dai movimenti di entrambi e attanaglia Ninì in un cupo silenzio, che, alle prese con le cose di sempre, rassetta, prepara la cena e dispone sul letto la roba da mettere in valigia. Non è la prima volta che Vittorio parte, ma questa volta ha una sensazione strana addosso. Non se la sa spiegare. È più forte di tutte le congetture a cui lei ha fatto ricorso per mitigare il senso d’angoscia che la possiede. L’atmosfera non cambia neanche a cena, nonostante l’innocente vivacità del loro piccolo tesoro. E, ognuno, perso nei propri pensieri anche durante il tragitto che li separa dalla stazione, sembra ignorare l’altro.

La stazione di Catanzaro Sala è quasi deserta. Dall’altoparlante, una voce anonima annuncia l’imminente partenza del convoglio. Ninì e Valerio, indietreggiano, si scostano dalla carrozza. Il treno si muove. Vittorio li segue dal finestrino: Ninì va via senza cedere ad un gesto d’affetto e Valerio gli grida di tornare presto con un bel regalo.
Le prime due carrozze sono occupate. Vittorio va oltre. Arriva all’ultimo vagone, apre l’ennesima porta e nello scompartimento semibuio, raggomitolato vicino al finestrino, un solo passeggero sonnecchia avvolto nel cappotto. Entra. Sistema la valigia sul portapacchi e si siede. Fuori, le luci intermittenti ai bordi dei binari si spengono. Vittorio chiude gli occhi e abbandona i pensieri al ritmo del treno.
Non si accorge del passaggio veglia/sonno e non ricorda neanche cosa ha sognato; rimane vivo, invece, il disagio del risveglio provocato dal formicolio costante che, simile ad una scarica elettrica, parte silenziosa dai gomiti e invade i nervi. Scrolla le braccia, massaggia le parti del corpo intorpidite e, lentamente, recupera le condizioni ottimali. Rinfrancato, si guarda attorno e s’accorge di essere solo. Il treno è fermo! Vittorio, si affaccia al finestrino e, a qualche metro di distanza, il cartello celeste, l’informa di essere arrivato alla meta. Raccatta le sue cose e si avvia.



X

Alla cascina dei Nordacco regna un’aria insolita. Le imposte sono serrate. Gli ambienti sono tenuemente rischiarati da lampade artificiali, tarate appositamente per emettere una luce fioca. L’autista porta il bagaglio nella stanza rossa. Vittorio lo segue dappresso. Sistema il bagaglio nell’armadio e s’infila sotto la doccia. Cambia la camicia; indossa la giacca e scende in salotto: il buio avvolge la stanza. Si sposta nello studio: stessa atmosfera. Dalla penombra, una sommessa e gentile vocina riferisce che: “L’ingegnere si scusa per non essere qui a riceverla personalmente ma inderogabili impegni di lavoro lo costringono altrove. Comunque, ha lasciato l’occorrente per il suo lavoro in questa cartella. La signora sta riposando. L’avvertirò del suo arrivo appena si sveglia.” Recitata la parte imparata a memoria, la ragazza orientale poggia la cartella sulla scrivania ed esce.
Vittorio rimane frastornato dalla molle accoglienza. Gironzola per lo studio. Sistema qualche foglio; apre la cartella ed esamina la documentazione. Non perde molto tempo ad aggiornare i disegni, e ben presto rimane privo di un ben che minimo interesse. Per sconfiggere la noia spulcia qualche libro. Ne visiona due, tre, ma non riesce a concentrarsi nella lettura come vorrebbe e li ripone nello scaffale. Estrae alcuni flaconcini dalla borsa, li agita; e, dopo averli esaminati, li pone nuovamente nella borsa. I campioni sembrano soddisfare le sue aspettative. Numera i flaconi e le relative campiture nelle note dei disegni; li ripone nell’astuccio e s’inoltra nel parco per sincerarsene.
Ai bordi del laghetto, un maestoso ficus benjamina fa bella mostra di sé: il tronco, snello e possente si libra in forme plastiche particolari e la chioma, leggera, solleticata dalla brezza, espande il suo lussureggiante volume nel cielo. Ai piedi, l’intreccio radicale modella il terreno; cattura i sassi e l’erba. Accoglie un giovane ulivo e scivola nel ventre molle del lago.
Vittorio n’è affascinato. Non va oltre; si ferma ad osservare a fondo la struttura, scandaglia ogni minima piega, ogni particolare. Ne sonda il volume; l’eterea corposità delle forme lo coinvolge. Il tempo è sospeso. Da lontano, giungono nitidi i rintocchi delle campane: sono molti; ma lui sente appena gli ultimi tocchi. Il sole è alto nel cielo. Distoglie l’attenzione dalle forme plastiche dell’albero; osserva l’inclinazione del sole e si avvia verso casa. La ragazza orientale gli comunica che il pranzo sarà servito alle tredici e trenta. Vittorio, si reca nello studio. Dà un’occhiata qua e là tra gli scaffali; legge i titoli sui dorsali dei libri; apre qualche testo; ma il suo pensiero è costantemente puntato sulla parte dolente della faccenda. Vuole capire. Ipotizza, impianta analisi sullo stato dei Nordacco nel tentativo di chiarire l’alone indefinibile che li avvolge.
Estrae i telefonino, preme il tasto dei numeri personali e, in automatico, contatta Ninì: parole stentate entrano ed escono dall’aggeggino magico. Stanche risposte cortesi e silenzi profondi anticipano eloquenti voragini d’incomprensione. Le pause evidenziano il disagio dei due. Vittorio scosta la tenda e guarda fuori. Non parlano. Per la prima volta sono distanti. Ripone il telefono e si sposta in sala da pranzo. Sulla soglia, la filippina gli comunica che il pranzo è servito. Vittorio, ringrazia ed entra. La tavola è apparecchiata per una persona. “E l’ingegnere? E la signora…” –Chiede- “I signori la pregano di scusarli, purtroppo l’ingegnere è stato costretto a rinviare la partenza e la signora è ancora impossibilitata. Sperano di vederla per cena.” Vittorio si siede. Versa dell’acqua nel bicchiere e beve. Scambia di posto le posate; prende tra il pollice e l’indice la forchetta, la soppesa. Infilza qualcosa. Allontana il piatto. Si alza; estrae il telefonino e richiama casa. Valerio risponde prontissimo e racconta d’un fiato le sue avventure giornaliere; anche Ninì è più tranquilla e ciò gli allevia un po’d’amarezza.

Il freddo umido del crepuscolo, lo sorprende ai piedi del ficus benjamina con le pagine del blocchetto piene di evoluzioni plastiche e accavallamenti armonici. Se non fosse per quel dolorino che gli si conficca nella cervicale, chissà quanto starebbe lì davanti. Ma è costretto a smettere. Chiude il block notes e rientra in casa. Il silenzio continua ad avvolgerla. Nella sala da pranzo, l’enorme camino è acceso. Poggia il blocchetto affianco alla poltrona e attende nella speranza d’incontrare i suoi ospiti. I minuti diventano ore senza che nulla cambi. E, man mano che passa il tempo, una sensazione di abulica impotenza s’impadronisce di lui. Non sa che fare. Giocherella col telefono. Lo ripone in tasca. Si alza, va verso la finestra; guarda fuori. Improvviso, quanto discreto, uno scalpiccio di passi veloci lo fa voltare verso la porta. I suoi sensi, allertati dalla nuova presenza sprigionano adrenalina in quantità eccessiva, e fiducioso s’appresta ad incontrare il nuovo venuto ma: “La cena è servita. La signora si scusa, l’ingegnere ha telefonato in questo momento, purtroppo è trattenuto…” –Annuncia la filippina-
L’alone di mistero si gonfia. In assenza di un dato pragmatico che possa ricondurre i pensieri a concetti ben definiti, Vittorio sviluppa fantasticherie e congetture irreali che non giovano per niente al suo umore. L’ansia monta quieta. Le astrazioni mentali ingigantiscono; esplodono in bolle vuote di fondamenta. È infastidito ma non lascia trapelare il suo disappunto. Cammina lentamente. Gira intorno al tavolo una, due, tre volte; percorre in lungo e largo l’ampia sala; poi, sblocca l’anta della vetrata ed esce nel patio. L’aria della notte lo investe in pieno viso. Fermo, con lo sguardo perso nella notte, osserva a lungo il cielo stellato. Gradualmente, una calma insolita lo avvolge. Sente il fluido benefico emanato dai corpi celesti pervadergli il corpo e intuisce d’essere partecipe di un misterioso disegno. Chiude gli occhi, respira profondamente ed i ricordi riaffiorano; dapprima confusi; poi, si rivede ragazzo nella baia di Ulisse. Qualcuno gli raccontò che Ulisse naufragò proprio lì, nello stesso luogo in cui, lui, trascorreva l’estate. E lì, nel golfo di Squillace, l’eroe greco costruì un villaggio con i resti delle sue navi. Per questo, il piccolo Vittorio, caricava di poesia ogni legno portato dalle maree sulle spiagge della sua infanzia. E più il legname si presentava corroso, tanto più la sua fantasia correva sulle tracce epiche narrate dai nonni. Per lui era naturale assistere a battaglie cavalleresche; a scontri tra il bene e il male; a commoventi incontri. Si vedeva testimone di storie d’amore, di principesse rapite e giovani eroi pronti a dare la vita per difenderle. Che strano!

Nel salone, il grosso ceppo, è alla fine; dalla cenere grigia soffici fili di fumo si dipartono su per il comignolo fino a scomparire, nell'abbraccio gelido della notte. Vittorio, passa oltre. Sale le scale e si rifugia nella stanza rossa.
La notte trascorre lenta. Il nostro amico è sveglio da un bel po’. Guarda l’ora. Si veste e scende con l’intima speranza d’incontrare i padroni di casa. Il salottino, adiacente alla sala da pranzo è vuoto. La filippina ripete il solito: “Buon giorno signore, la colazione sarà servita in sala da pranzo.” “Buon giorno, e i signori?” “Dormono. L’ingegnere è rientrato molto tardi.” Bèh, almeno lui è arrivato. –Pensa, tra sé, Vittorio.- Entro oggi devo risolvere la faccenda! Per il momento, un buon caffè cremoso, è quello che ci vuole.

Nel parco, folate leggere scompigliano le fronde degli alberi e repentini battiti d’ali accompagnano il fruscio delle foglie morte al passaggio di Vittorio. Quando:
“Mi scusi se la interrompo... La signora la prega di sospendere il sopralluogo. L'aspetta per il pranzo.”
Le parole del giardiniere, totalmente estranee all’atmosfera dei luoghi resi selvaggi dal groviglio di rovi sui vecchi muri di pietra e dall’erba alta ai margini dei viottoli, giungono inopportune. In compenso, gratificano la paziente attesa di Vittorio che, sollevato dalla notizia, si mette sulle orme dell’uomo.

Nilde lo accoglie con affettazione. Ciononostante, a Vittorio non sfugge il malessere interiore che traspare dal suo essere; e, profondamente colpito, decide di non chiedere spiegazioni, almeno per il momento.
A tavola, il pranzo è interrotto da banali quanto sporadici convenevoli; ad un certo punto, Nilde, apre una nuova parentesi. Si scrolla di dosso l’aria greve; abbandona le formalità e:
“Ho dato un’occhiata al blocchetto che hai dimenticato sul divano… Belle, quelle forme, sinuose e avvolgenti. Calde… –Sussurra. E, fattasi coraggio aggiunge– Mi piacerebbe saper disegnare…” “Non è difficile, è semplice mestiere; basta conoscere la tecnica e ogni cosa diventa semplice.” “Facile per te!” “No, per chiunque! Vuoi una conferma? Segui i contorni della bottiglia dell’acqua, sul tavolo. Osservala bene e riporta il perimetro nudo e crudo senza lasciarti condizionare da ciò che il tuo cervello ha immagazzinato come concetto di bottiglia. Fai un’analisi reale dell’oggetto e associala alla forma geometrica elementare più prossima alla figura. –E, dicendole ciò le porge la penna e il blocchetto. Nilde lo guarda timida; lui, per rompere gl’indugi, le suggerisce il modo corretto d’impostare la geometria nascosta dell’oggetto-. Così brava! Hai visto?” “Ce l’ho fatta! Evviva ce l’ho fatta! Dai facciamo qualche altra cosa. Voglio imparare a disegnare…v vuoi…i insegnarmi…” “Certo, perché no…” “Oh grazie dai cominciamo subito!”
Nilde sembra rinata! Non smette un attimo di parlare; programma lezioni, disegni da eseguire e soggetti da trattare in tempi brevi per dipingere al più presto come una vera pittrice.
Presa dall’entusiasmo, nel pomeriggio, trascina Vittorio per negozi. Lei, neofita, si lascia attrarre da ogni cosa esposta sapientemente. E mentre Vittorio osserva alcune cartelle grafiche il commesso segue dappresso Nilde che, complimentandosi per l’oculatezza nella scelta dei prodotti, ne suggerisce l’utilità.
Giunti alla cassa, tra il disappunto del commesso e la delusione di Nilde, Vittorio elimina buona parte dei prodotti. La disapprovazione maggiore, Nilde la manifesta alla resa della cassetta di legno con la scritta: “Tutti artisti in un batter d’occhio” “Come coloriamo?! Là dentro ci sono tutti i colori!”
“Non servono. Bastano i colori fondamentali. Vedrai, sarà estremamente interessante comporre la gamma cromatica pescando dal blu, dal rosso e dal giallo. E poi, ogni cosa è colore. Potrai adoperare qualsiasi oggetto per concretare le tue sensazioni più intime, dai ritagli di giornale, alla matita, alla sabbia, al gesso, oppure i metalli, la grafite o un semplice pezzo di legno carbonizzato, una pietra dalle venature interessanti. L’importante è rendere visibile con decisione e carattere ciò che ti pulsa nell’intimo, il mezzo con cui l’ottieni è di secondaria importanza, anche il rossetto può diventare un medium efficace per esternare la poesia che trattieni dentro.” “Davvero credi che riuscirò anch’io a realizzare lavori interessanti?”“Certo. Basta volerlo! Non sono gli attrezzi o il mestiere a fare assurgere un manufatto ad opera d’arte…”
L’interesse di Nilde per quello che gravita attorno al linguaggio sublime dell’arte è genuino. Vittorio ne è coinvolto e risponde di buon grado alle domande sui galleristi, sugli artisti, sui movimenti innovatori di pensiero e, di conseguenza, sui linguaggi espressivi che ne hanno scritto la storia.

Decidono di attrezzare lo studio in un vecchio capanno abbandonato. Lo spazio è ottimale, ma per renderlo fruibile c’è molto da lavorare. I vetri sporchi e le ragnatele ispessite dalla polvere fungono da vere tendine grigiastre. Nilde, rifiuta la presenza di Vittorio nella fase iniziale; preferisce lavorare da sola e nel giro di due giorni trasforma, come d’incanto il capanno: tende alle pareti in vetro, salottino, stufa a legna, libreria, tavoli da disegno, cavalletti, trespoli, piante sempreverdi, nonché un impianto stereo dal suono pulito.
Nilde, visibilmente soddisfatta del suo lavoro, invita Vittorio ad entrare. Entrambi, si avvicinano ai cavalletti; e, come guidati dallo stesso pensiero, si siedono. Da lì a poco l’ambiente assume i connotati di un atelier carico di odori singolari, chiazze cromatiche e disordine creativo. Non si accorgono del tempo che passa. La materia prende forma e il colore invade le superfici con rinnovato vigore. Il resto non conta. Non esiste! È pura astrazione.
La telefonata secca di Concetta riporta le menti ubriacate di trementina e poesia alla realtà: “Andrea è rimasto vittima di un incidente, devi rientrare subito!”



XI

L’insoddisfazione deprime anche gli uomini forti, lessi da qualche parte, ed io non mi ritengo forte per niente; anzi, non ho più certezze o convinzioni che m’inducano alla tranquillità interiore. In alcuni momenti, mi sento prigioniero e oppresso dagli eventi nonostante la parvenza di libertà che si respira. No, non mi ritengo soddisfatto dell’andamento generale della società in cui vivo. Da ragazzo l’insoddisfazione faceva scattare la molla della ribellione; adesso, da adulto, dopo aver cozzato contro i muri di gomma, è subentrata la rassegnazione! Pensare che eravamo fermamente convinti di poter cambiare il mondo: scioperi contro il razzismo, contestazioni contro la classe borghese capitalista affamatrice dei lavoratori, manifestazioni per una scuola democratica…Con la passione dettata dall’incosciente sprovvedutezza generazionale, protesa a rendere concreto quanto propagandato per la costruzione di una società priva di totalitarismi trascorsero gli anni giovanili; purtroppo, le buone intenzioni sono rimaste tali e non uno dei problemi, analizzati e dibattuti ampiamente negli anni della passione politica è, nel frattempo, mutato. Lungo il cammino, molti riformatori pacifisti hanno ritenuto opportuno inserirsi nel sistema ed essere, a loro volta, contestati dai figli, solo uno sparuto numero continua fiducioso il cammino ideologico, impegnandosi a realizzare gli slogan solidali urlati da ragazzi. È l’amore per il prossimo che li motiva ad andare avanti, ma, i cani sciolti sono pochi, anzi rari. Ci vuole coraggio a perseguire la libertà di pensiero. La libertà di idee, porta a rivedere lo stato reale delle cose, induce a rivisitare idealmente le possibilità per abbattere gli egoismi, quindi osteggiare e combattere l’ostracismo malefico di quanti ancorati alla materia che, per raggiungere i loro traguardi, sono disposti ad ogni bassezza. I randagi, altruisti per vocazione, non sempre hanno un bel pelo lucido, non dormono sui divani e spesso saltano il pasto. Questi elementi contraddistinguono i buoni di spirito, però il male è ben camuffato, s’intrufola nelle attività sociali, nelle imprese umanitarie, ed in ogni movimento di pensiero per raccogliere consensi e indirizzare all’odio di massa il singolo. Bisogna saper discernere. Ogni cosa sulla terra ha un doppio carattere, l’importante è capirlo in tempo e non diventare strumento per le offese altrui. Ma, quanti di noi si fanno scrupoli? S’interrogano su cosa è bene e cosa è male?
Sono stanco! Stanco di ascoltare banalità da bocche grintose. Stanco di assistere alle ingiustizie sistematiche. Stanco di… Basta, basta con questi pensieri! Ora voglio gioire dell’affetto della mia famiglia, giocare con Valerio: è da tanto che non lo faccio!
–L’autodeterminazione è sentita in Vittorio. Non sopporta più la restrizione che si è imposto. Grazie alla parentesi con Nilde, che ha risvegliato in lui le forti pulsioni della creatività, vuole riprendere a dipingere. È un imperativo assoluto; una crisi da colmare.-
“Vittorio, c’è Immacolata al telefono: chiede tue notizie” Vittorio risponde alla chiamata di malavoglia. L'impostazione mielosa di Concetta evidenzia tutta la falsità del suo essere, non incanta più anzi, lo irrita. “…Sono molto stanco ci vediamo domani!”. Le risponde. E riattacca. “Papà hai finito di parlare al telefono? Papà …dobbiamo finire di costruire il fortino.”
Vittorio, scrolla di dosso gli affanni; si abbandona ai giochi infantili. Si entusiasma insieme a Valerio per la riuscita di una prova d’abilità, e sulle note musicali scandite dalle dita affusolate di Ninì, urlano di gioia. Piccole cose, insomma, che ritemprano l'animo purificandolo dalle cattiverie subite. “Il pranzo è pronto, a tavola!” “Mamma ci chiama. Andiamo!”
Vittorio è pieno d’energia! Sente la necessità impellente di scaricare il fuoco interiore nel gesto creativo. Ninì, nel salutarlo, gli raccomanda di non far tardi e di tenere il telefonino acceso. In men che non si dica è nello studio: la musica vibra nell’aria; i tubi fluorescenti illuminano le pareti vuote, i ripiani e Vittorio che, dimentico del mondo, dà vita alle pulsioni interiori.

“…già nella guerra del golfo, inglesi e americani, dopo aver ravvisato in un numero cospicuo di soldati i sintomi delle malattie tumorali provocati dalle radiazioni di cui furono vittime anche i civili, iniziarono a bonificare le armi a base d’uranio impoverito...” La notizia, data con distacco è immediatamente soffocata dai ritmi assordanti della disco music.
Le lacerazioni materiche della struttura si trasformano sotto i colpi del pennello intinto nei rossi, diventano ferite. Squarci; voragini. La garza occulta o evidenzia affiches; imprigiona parole non dette; grida verità. Vittorio avverte il pathos. Sospende il lavoro e scrolla gli arti. Prende la bottiglia del prosecco, s’inumidisce le labbra e osserva l’opera.
Imperioso, il trillo del citofono lo distoglie dalla riflessione. Accosta la cornetta all’orecchio, chiede chi è. Dall’altro capo, risponde flebile il miagolìo di un gatto randagio. È qualcuno che ha sbagliato. Pensa. Rimette a posto e si appresta ad intervenire sull’opera; ma, non arriva al cavalletto. Un picchiettare alla porta lo fa tornare indietro. Apre: “Vincenzo, che piacere! Entra…” “Vittorio! Mi trovavo da queste parti; ho visto la luce nello studio ed eccomi qua… Ehi! Ma è …un pugno nello stomaco! Sei pazzo! Tu sei un folle… Non puoi proporre questi lavori; sfido io, che non vendi!” “Quelle persone che non possono mai dimenticare ciò che vogliono, e affermano la loro volontà di fronte ad un’opera d’arte, non possono mai raggiungere un’autentica esperienza artistica. L’opera d’arte impone un genuino e totale oblio di se stessi. E, se questo è vero per lo spettatore, è vero anche per l’artista. Nel momento della creazione, la sua volontà personale va lasciata in sospeso; altrimenti la sua opera avrà qualcosa d’artificioso e di forzato. Byron, in merito ai ragionamenti divini dell’anima, diceva: …Invano contro di essi vorremmo far ubbidire la carne: alla fine lo spirito fa quello che vuole.” –declama, in risposta, Vittorio- La schermaglia verbale, non si esaurisce lì. Accompagna i vecchi amici lungo la strada che conduce alla trattoria degli artisti. Il ristoratore, un buon uomo senza famiglia, li accoglie bonario. Oreste, sta lì giorno e notte, estate e inverno, porta ai tavoli del provolone piccante, vino, finocchi caldarroste e spesso si siede a piluccare con loro.
Il clima familiare, induce, all’occorrenza, a servirsi da sé e ad accettare quello che offre la casa a prezzo fisso. Nonostante l’ora tarda, nel locale tra gli altri, una donna truccata pesantemente e con i capelli scompigliati beve del vino: ha lo sguardo perso nel vuoto e, tra le mani, poggiate sul piano del tavolo, un pezzo di pane con delle olive. Oreste, la chiama “baronessa”, le riserva sempre lo stesso tavolo e la tratta con rispetto; spesso, poggia le spalle al muro, piega la testa in avanti e si assopisce. L’atteggiamento della donna riporta alla mente la bevitrice d’assenzio di Degas, un pregevole dipinto impressionista in cui è riportato con sensibilità e maestria il malessere di una cocotte francese dell’ottocento.
Cambiano le mode, le teorie, i luoghi ma i sentimenti umani permangono immutabili. Conferma zio Oreste nel poggiare sul tavolo il tagliere con la ndujia; asporta dal budello un tocchetto di poltiglia rossiccia, la spalma su delle fette di pane abbrustolito, versa del vino e alza il bicchiere: “Salute!” “Salute” “Ottima! Dove l’hai trovata, a Briatico?” “Briatico, Zambrone, Brattirò, nel vibonese sono specialisti ad insaccare la carne di maiale in questo modo! La tenevo da parte per te! Sapevo che ti saresti fatto vivo… Ma tu, benedetto figliolo, devi prendertela di meno; guarda che la vita continua anche senza di te e le tue analisi esistenziali. Qualcuno, prima di te, predicò l’uguaglianza, l’amore, la fraternità ed è morto sulla croce per mano degli stessi che il giorno precedente lo veneravano; eppure, aveva fatto miracoli! Sono pochissimi gli uomini retti, ma quelli sono santi o eroi; gli altri, siamo opportunisti. È la vita; lo spirito di conservazione c’induce ad essere umanamente terreni! E poi, la gratitudine o la stabilità emotiva non appartiene agli uomini comuni! Fai le tue cose, continua la tua ricerca poetica senza curarti eccessivamente di certa gente: non hanno ancora raggiunto il giusto grado di maturità. Mangia a gustu toi e vesta a gustu e l’atri.”… La formazione culturale di zio Oreste si è stratificata nella coscienza con metodicità quotidiana. L’esperienza e l’innato spirito d’osservazione, hanno sopperito alla mancata istruzione scolastica fino a fargli leggere l’animo delle persone e a cogliere i più reconditi segreti. Ha viaggiato poco, nonostante ciò conosce benissimo la sua terra. Non ama le falsità e la sua reazione, al racconto spocchioso di viaggi mai fatti, è categorica: “A televisiona stravijau u cerveddu a li genti!” dice spesso, e, con un gesto della mano, senza degnare l’interlocutore della minima attenzione dà per certo che l’America sta lì, sotto ai suoi piedi. Ama la sua terra non ancora contaminata dai ritmi delle grandi metropoli, dalle povertà create dall’economia insaziabile e dai centri produttivi insediati secondo programmi avventurosi.
“Le nostre ricchezze sono: la terra, il clima, e l’immensa ospitalità di noi calabresi! Il resto è fumo, aria fritta! Ricordiamoci che se la parola è d’argento il silenzio è d’oro. Gli occhi non vedono la verità, ma, semplicemente la copia esteriore condizionata dalle dicerie: vèstiti zuccuna ca pari baruna! Diceva mio nonno! Fino a qualche tempo fa non ero d’accordo, che vuoi, l’inesperienza ci fa fare tante di quelle sciocchezze! Però, il tempo mi ha insegnato che se l’abito non fa il monaco, l’aiuta parecchio perché viviamo di simboli e linguaggi esteriori che condizionano gli animi”.

La bottega di zio Oreste, col braciere di rame al centro del locale, è luogo sacro e profano allo stesso tempo; non passiva casualità ma azione dinamica che pone nella giusta sintonia le menti, ne sonda i destini e li plasma nella luce.

“Che c’è di meglio o peggio a nord o sud del mondo? Cos’è che determina nella mente lo stato di quiete e benessere? La visione idilliaca di un mare limpido e trasparente o monti verdi in estate e innevati d’inverno? Un amore passionale? La pace sociale?
Senz’altro, ognuno ha la propria verità in tasca. I politici di mestiere troverebbero immediatamente un antidoto ad hoc per ogni problema; pronti e rassicuranti, somministrerebbero la dose giusta al momento propizio; incazzandosi, se necessario, con chi manifesta perplessità urlandogli in faccia un “programma forte e lineare” che, puntualmente, sarà disatteso. Un solo dato è certo: la nascita degli imperi commerciali sulle miserie dei deboli. Quelli, quelli sono realtà tangibili. Concrete; e li vedi crescere; espandersi, nella Babele degli affari. Persino i Santi e gli Eroi sono usati all’uopo. L’esigenza del trascendentale guida l’uomo dalla notte dei tempi; e, stando ai più dotti, ciò avviene a causa della paura generata dall’ignoto; tuttavia, nonostante gli umani affanni, il tempo livella ogni cosa, modifica gli eventi secondo una filosofia che prescinde il volere terreno. Sapete come diceva sempre la buon’anima di mio padre? Quando la gente dice: “quello è un uomo buono!” allora vuol dire che ha vissuto bene la sua vita, che ha fatto del bene agli altri. Ecco, io vorrei che la gente mi ricordasse così. Ma lasciamo da parte i concetti filosofici e veniamo a noi: Graziano ha riaperto il giardino d’inverno; ha attrezzato nuovamente il terrazzo come ai bei tempi: vuole riprendere gl’incontri culturali e mi ha incaricato d’invitare i vecchi amici…” -Conclude zio Oreste- Il buon uomo, non tocca mai argomenti pesanti; tutt’altro! Gli piace scherzare, divagare sulle frivolezze d’alcuni catanzaresi stolti che al momento hanno preso di mira il buon Graziano: “Alla fine, chi semina vento raccoglie tempesta!”. Taglia corto il buonuomo, sulle malelingue.
“Gli impiccioni sono attenti a vedere quale forno fuma, per loro cercare un difetto su cui ricamarci sopra è il massimo! È il passatempo preferito dalla notte dei tempi! Neanche i santi lasciano in pace. Sapete anche San Giuseppe fu preso di mira. Ora vi racconto: una volta, mentre tornavano da Gerusalemme, lungo la strada, alcune persone lo schernivano perché nonostante avesse l’asino nessuno della famiglia montava in groppa. “In effetti” disse il Sant’Uomo alla sua Sposa, “potremmo fare a turno sul ciuco, cosi la gente non ci giudica sciocchi e alleviamo la fatica del viaggio. Sali per prima tu, Maria, che sei più provata di noi” ma: “Guardate! Il Vecchio e il Bambino vanno a piedi mentre la Giovane sta comodamente a cavallo!” Commentarono con livore gli astanti. Giuseppe, paziente, tentò ogni possibile combinazione pur di non sentirli parlare, ma ad ogni soluzione, si aggiungeva immancabile il giudizio negativo dello stolto di turno. Dopo averle provate tutte, stanco più dalle parole che dal viaggio, decise di salire anche lui sul dorso dell’asino e fu al quel punto che si levò il coro più aspro: “Che gente senza cuore! Lo faranno scoppiare quel povero asino! Perché non camminano a piedi piuttosto che affaticare quel povero animale?”

E’ notte fonda; un tappeto di luci si srotola a rischiarare la vallata e accompagna i sogni dei catanzaresi verso il mare in un via vai caotico d'utopie vaganti alla ricerca dei propri simili; e lì navigano anche le idee dei nostri amici, corteggiatrici instancabili di menti romantiche.

XII


Sono trascorsi almeno quindici anni dall’ultima volta che si sono incontrati. Vittorio ricorda il suo viso regolare dal mento quadrato; i radi capelli neri sulla testa stempiata. Un uomo ancora nel pieno delle forze, che alterna momenti d’ipocondria pura a frenetici bagni di folla. Cordiale e sorridente come allora, ma canuto, Graziano gli va incontro facendosi precedere da una moltitudine di domande. Dimostra di essere informato sull’attività artistica di Vittorio, anche se confonde le date degli episodi. Ricorda avvenimenti lontani, quasi dimenticati e sempre col sorriso sulla bocca esterna la sua felicità raccontando aneddoti che li riportano indietro nel tempo verso momenti importanti. Vittorio si ferma con lui una mezz’oretta circa; poi, sollecitato dagli impegni si accomiata. L’amico, prende un libricino, scrive qualcosa sul frontespizio della sua raccolta di poesie e glielo porge: “Al caro Vittorio Cino con profondo senso d'affetto e caro ricordo con l’augurio di un brillante avvenire nell’arte della pittura…”

Vittorio è davanti al cavalletto.
L’ultimo lavoro è ottimo dal punto di vista formale, eccessivamente costruito, però; quasi cervellotico! Sì, si è lasciato prendere la mano dal mestiere: ha prodotto uno di quei lavori privi di pathos. La routine gioca brutti scherzi! E Vittorio lo sa. Interviene di getto: intinge il pennello dell’imprimitura e lavora con voga. Cancella le figure, eccezionalmente lisciate. Le scrosta; le rattoppa. Determina di nuovi significati la superficie. Cancella; evidenzia un particolare. Si ferma. Strofina le mani allo straccio. Massaggia i lombi. Interviene nuovamente. Butta il pennello sul piano da lavoro; si allontana e si siede alla scrivania: la raccolta di poesie del vecchio Maestro sta lì, sopra una pila di riviste d’arte. Prende il libricino, lo apre a caso e legge. Legge i suoi affanni di uomo, la nostalgia per la compagna defunta e per il tempo trascorso, i compiacimento per i traguardi delle nuove generazioni, le costernazione per il malessere esistenziale riservato alla terza età… Sofferenze, soprattutto sofferenze dovute ad uno stato di malinconia morbosa. Vittorio distoglie lo sguardo dalla lettura e osserva il lavoro sul cavalletto: gli squarci materici e l’intervento cromatico suggeriscono malessere e ferite spirituali che riconducono il dato figurativo alla sintesi dei pensieri esistenziali appena letti. I disegni fonetici, sballottati dal vento emotivo nel turbinio irrazionale della creatività sono atterrati sul supporto appena ultimato ancor prima che li leggesse. Un brivido pervade la pelle di Vittorio che chiude il libro e va diritto al cavalletto. Firma il lavoro. Pulisce i pennelli e va via.


XIII

Il silenzio della notte amplifica i suoi rumori. Vittorio butta la giacca sul divano e la segue a peso morto. Rimane immobile nella semioscurità, spegne i sensori e disconnette i pensieri. Accende la tv; le trasmissioni hanno come unico interesse l’eredità di una nobildonna! Il lettore, con dovizie di particolari, si affanna ad enunciare possibili equazioni in merito alle beghe legali accese dagli eredi per accaparrarsi le ricchezze più congrue. Vittorio non dà peso alle tonnellate di cazzate srotolate dagli intrecci parentali. Ha i suoi, di cazzi, in testa. E certamente non può stare dietro ai pettegolezzi cuciti ad arte sulle disavventure della gente nota; ciononostante, non spegne e neanche cambia canale. Tutto sommato, gli fa bene sentire qualcuno parlare. Punta i piedi; sfila le scarpe e va in bagno. La cesta dei panni sporchi è piena. Butta la camicia; slaccia i pantaloni e continua nel suo peregrinare. Il letto disfatto da giorni è molliccio. Tira le coperte. Indossa il pigiama e s’infila sotto le lenzuola. Appallottola il guanciale sotto la nuca. Si rigira nel letto; le lenzuola, ridotte un cencio, lo avvinghiano. Scioglie l’intrigo di nodi; allarga le coltri e cerca un po’ di conforto sul cuscino ancora intriso del profumo di Ninì. Da qualche giorno gli eventi scivolano indifferenti sulla sua coscienza volutamente chiusa alle emozioni. Osserva la gente affannarsi, rincorrere, pietire, esultare… e lui, lui s’interroga; chiede! Innalza preghiere al cielo. La sua intimità urla sull’orlo del baratro: perché, perché ancora una volta ho dovuto toccare con mano la cattiveria gratuita degli sciacalli.
Eppure, i segni erano giunti chiari; avrebbe dovuto accorgersi dei malumori di Ninì. Ma ciò non è stato ed ora si trova da solo. Insonne, in compagnia d’uno sciame di pensieri ronzanti, ad osservare la notte che muore al nuovo giorno. Ripara istintivamente gli occhi dal sole; si alza e, barcollante, va in bagno e da lì in cucina. Prepara il caffè. Lo beve; poggia la tazza sulla tavola cosparsa di briciole e tozzi di pane raffermo (nel lavello non c’è posto per l’ultima tazzina) ed esce tirandosi la porta alle spalle. Per strada lo scenario è cambiato rispetto al giorno precedente: la guerra all’ultimo manifesto è in piena attività. Signori di mezza età dal sorriso rassicurante con in mano penne, telefonini, giornali, braccia conserte, sguardi ammiccanti, si affacciano dagli spazi elettorali; invadono i muri della città e ogni superficie utile. L’uno annulla l’altro; non si sa in quale momento avvenga la sovrapposizione, sta di fatto che laddove sorride un esponente, in un battere di ciglia ne appare uno differente. Anche sulla segnaletica stradale si alternano i volti dei concorrenti. Soffocato dai manifesti propagandistici, risalta per la singolare simpatia e non per la quantità d’affissione, un faccione simpatico dalla smorfia birichina con scritto: Pulcinella chi?… “Ma… ma lo sai che voto lui! M’ispira di più” “Oh! Zio Oreste, buon giorno! Come mai da queste parti? Perché non sei in bottega…” “Ho fatto la spesa ed il pieno di santini: ognuno che incontro mi propone un amico da votare!”
-Fanno insieme un tratto di strada, poi, zio Oreste devia e Vittorio continua la consueta passeggiata tra i violetti. Dopo un largo giro arriva allo studio. L’interno è impolverato; dovrebbe pulire. Indossa il camice. Il citofono squilla. Schiaccia il pulsante. Apre il cancello; lascia la porta socchiusa e si appresta a dipingere. Alma varca la soglia in preda ad una crisi di tosse. Vittorio le porge un bicchiere d’acqua e chiude la porta. “E' invivibile questa città! Pensa: sono salita con la calabro per evitare il problema del traffico e del parcheggio e per poco non muoio asfissiata! Hai mai pensato di trasferirti? Perché non ti sposti giù da me? Ci sono locali da favola! Che ne dici?” “No, non mi va. Il solo pensiero di dover sradicare tutto, imballare ogni cosa…e poi avrei il problema di arrivare in centro. Non credo sia il caso” “Ma che ti costa? Prova, no! Potresti trovarti bene. A proposito: un carissimo amico si è trasferito per lavoro a Roma ed ha lasciato la casa con annesso un locale bellissimo che lui usava come garage. Lì tu potresti farti lo studio. La macchina può stare fuori: c’è tanto di quello spazio…sai, è un quartiere concepito con criteri moderni: ampi spazi, verde, parcheggi condominiali, parco giochi, l'ideale per una famigli… scusa…” “Non ti preoccupare. Forse hai ragione. A ben pensarci, potrei trasferirmi, lasciare la vecchia casa con dentro i ricordi, l'odore perenne di muffa nel vico d'accesso. Sì è meglio iniziare un nuovo capitolo!”

La nuova residenza, ubicata in un anonimo palazzone sorto da poco nel giovane quartiere, presenta immediatamente i pro e contro della periferia. Lungo la strada principale, nei pressi della pensilina del pullman, gruppi di ragazzini trasandati nell'aspetto e nei modi ciondolano con aria da persone vissute; e, poco discosti, giovanotti silenziosi e all'apparenza apatici, fumano e squadrano le macchine che passano. Qualcuno sbadiglia, stiracchiandosi nella tuta da ginnastica nuova indossata non per fare sport. Più in là, uomini dal ventre prominente appoggiano stancamente la schiena e la pianta del piede al muro. È appena mezzogiorno! Vittorio passa avanti, imbocca la terza traversa, gira a destra e parcheggia. Dà un’occhiata ai palazzoni intorno e individua il numero 13. Si avvia, apre il portone, lo blocca e scarica dalla macchina uno scatolone di libri; lo trascina all’ingresso e districandosi tra i vari imballi disseminati per casa punta diritto sul locale da adibire a studio. La struttura ricorda, anche se in misura ridotta, il capanno fiorentino. Già… il capanno fiorentino! Da lì iniziarono le incomprensioni che hanno minato il legame con Ninì…vr vr Vrvrr vrrr “Pronto” “Allora che te ne sembra?” “Sì è veramente un bel locale!” “Tra poco verrò a darti una mano; sbrigo alcune faccende e sono da te, ciao!” “D'accordo, a dopo”.
Mentalmente, Vittorio valuta lo spazio e organizza idealmente la disposizione dell’arredamento acquistato ai grandi magazzini. Fatto ciò, seleziona gli scatoloni. Sposta la roba nelle varie stanze, sistema per prima i vestiti, poi i libri ed infine il computer.
L’odore delle pareti appena tinteggiate è gradevole; così pure i rumori, a lui nuovi, del condominio. Dalle scale giungono voci indistinte, dapprima lievi, poi animate. Non dà peso. Le urla, provenienti dall’esterno, si fanno sempre più strazianti, li sente vicini. Colpi concitati, frammezzati da singhiozzi, si abbattono sulla sua porta. Apre e una giovane signora, col trucco disfatto dal pianto, visibilmente impaurita s’affloscia davanti a lui singhiozzando: “I ladri…so no vveenuti i ladri…”. Superato il primo attimo di stupore, tira una sedia dall’imballo e la fa accomodare. L’attesa delle forze dell’ordine è straziante, la signora non sa darsi pace; trema, emette flebili lamenti. Gli inquilini dei diversi piani affollano il pianerottolo: lo sbigottimento attanagli tutti. Tentano analisi, fanno supposizioni; imprecano ma i ladri e la refurtiva sono svaniti nel nulla. All'arrivo della polizia, il quadro si sposta nell’appartamento profanato. Lo scenario è drammatico. Porta divelta, cuscini strappati, armadi e cassetti spalancati, biancheria sparsa per casa. Una scenografia da film, a dir poco, traumatica nella cruda realtà e fortemente carica d’impotente rancore nei confronti di chi ha violentato l’intima dimora. “I sacrifici del mio lavoro…i ricordi affettivi, delinquenti schifosi…”. “Signora, si calmi. Dobbiamo stendere il verbale…si calmi. Vuole dirci cosa le hanno rubato? Ha qualche sospetto?…”
Le formalità burocratiche, se pur necessarie, accentuano la stizza dolente della povera malcapitata; costretta a soffocare il dispiacere, rispondere alle domande delle forze dell’ordine e, addirittura, consentire alla scientifica di prelevarle le impronte digitali così da eliminarle dalla ricerca. Guarda incredula la mano sporca d’inchiostro; strofina i polpastrelli con un tovagliolo di carta e firma il verbale.

È trascorso un mese. Null’altro ha turbato la quiete del quartiere. Per le strade non c’è vita. Gli edifici proiettano geometrie nette; il gioco visivo dei piani in luce, dei volumi e delle ombre fanno sorgere paesaggi irreali e nella prospettiva crepuscolare si respira la stessa scenografia dei quadri metafisici di De Chirico, pur senza i manichini o le statue che popolarono gl’incubi dell’Artista. A questi sopperiscono le sporadiche apparizioni delle vecchiette dirette a messa, le macchine in sosta ed i maestosi eucaliptus, mentre i ragazzi preferiscono altri luoghi. Luoghi rumorosi, colorati, luoghi di tendenza!, in cui stazionano giovani e meno giovani; e lì, formano ammassamenti abnormi; divisi per gruppi, aspettando che faccia sera. Ma, a Vittorio questa quiete non dispiace. Anzi, lo aiuta a lavorare.

“Vittorio Vittorio dove sei? Accidenti! Possibile che non ti posso lasciare un istante…Ancora scatole scatole da svuotare, la spesa da mettere a posto…Ehi dico a te dove sei?”
“Oh, ecco il mio grillo parlante; come và, tutto bene?, vieni, non fare caso ai pacchi vieni vieni a vedere.”
“Ma qui è impraticabile! Non si può camminare con tutti questi ostacoli tra i piedi… Come fai a vivere così?”
“Lascia perdere, non badare al casino, c’è tempo per mettere a posto! Vieni, vieni a vedere il mio universo!”
“Piano non correre ho la gonna stretta… ma… ma…
Lo sapevo! Lo sapevo! Lo sapevo che prima o poi avresti rotto il guscio. La creatività non si lascia imbrigliare è impetuosa come il vento, anarchica come la pioggia e tu, tu sei l’uno e l’altro!”



P.s.
Appoggiato alla ringhiera di Bellavista, baciato dal nuovo giorno, un personaggio singolare, alto e mingherlino con pizzetto e baffi a punta all’insù, tenta di bloccare un’alba dorata nell’obiettivo digitale; mentre un ometto anziano, rotondetto e basso, con i capelli visibilmente tinti di nero corvino, imprime, alla maniera dei primi impressionisti, il sol nascente sulla tela.

Il tempo è un soffio d’ali; un velo di ruggine custodisce la storia dei singoli mentre l’orizzonte si tinge di colori caldi e soffici.
Un altro inverno è trascorso.
Bagliori rosati attraversano i larghi ventagli della palma e gettano gocce di luce sui vimini del gazebo.
Ninì, avvolta da un’aura celeste sorseggia il caffè; e Vittorio, Vittorio beve la sua dolcezza…
…La resa è dolce. Il corpo astrale, privo del fardello terreno, sorvola cent'anni di solitudine per rinascere etereo, attraverso la catarsi dell'amplesso cosmico, nei luoghi dell’anima.
©m.j. 2003

1 commento:

  1. è un racconto breve, intenso nella narrazione poetica che fa intravedere scorci di calabria e spicchi di cuore calabrese. romantico e struggente in alcuni passi.

    RispondiElimina

LA PAROLA AI LETTORI.
I commenti sono abilitati per chiunque passa da qui, si sofferma, legge e vuole lasciare un contributo all'autore del post.
ATTENZIONE! Chi commenta i post del blog è responsabile di quanto scrive. Pertanto non è prevista nessuna moderazione o censura ai commenti salvo evidenti illiceità.