Quando fca si chiamava FIAT.
Quando la casa automobilistica era un vanto tutto italiano e
la famiglia Agnelli rappresentava l’Italia e dava lavoro a quasi mezza nazione
e Torino era la capitale industriale che accoglieva braccianti per trasformarli
in operai e dava la possibilità di sognare.
Ecco, a quei tempi, tutti i governi che si sono succeduti nella
guida del Paese avevano un occhio di riguardo per la famiglia Agnelli e per la
FIAT.
A quei tempi il sogno di poter cambiare vita e prospettive
per i lavoratori che abbandonavano le campagne per fare il salto di qualità,
diventare operai o impiegati nell’industria metalmeccanica era possibile.
Poi il grande abbandono del gruppo desertificò Torino e
impoverì l’Italia. Tradì le aspettative che nel tempo si erano trasformate in
certezze per quanti credevano nell’industria italiana.
L’ascensore sociale si era bloccato. E le prime sintomatologie
del declino si avvertirono nello sciopero interno tra quadri, dirigenti,
impiegati e operai. La contrapposizione delle varie anime ponevano problematiche
corporative, settoriali, a tutela dei reparti e del lavoro in forma egoistica e
non più sociale, identitaria e produttiva.
Marchionne pensò al mercato e ai giochi della finanza.
Trasformò la fiat in fca. Spostò le sedi approfittando della
libertà di mercato in residenze vantaggiose per il gruppo fiat e la famiglia
Agnelli. Mantenne le briciole in Italia ma dietro ricatto commerciale non certo
per gratitudine verso gli italiani e i governi che l’hanno fatta diventare
grande.
Indubbiamente di errori ne sono stati commessi in tutti i
tavoli. Ma quando si scappa con la cassaforte non si lascia un gran bel
ricorso.
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