racconto breve di mario iannino
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"scorcio di Palermiti, Catanzaro" |
Casa mia era situata sulla sommità di una collinetta nella parte storica del paese. Dal balcone, abbracciavo con lo sguardo l'azzurro del cielo e il verde della campagna all'unisono.
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"panoramica, Palermiti, cz" |
Alle pendici della collinetta urbana, infondo alla discesa, c'era e c'è tuttora "a kona", la piazza importante del paese il cui nome è, suppongo, mutuato dalla sua forma concava. Questa sorta di cucchiaio che è la piazza, è tagliata in due dalla strada provinciale che da Squillace raccorda i centri urbani limitrofi, incasellati uno dietro l’altro come i grani del rosario fino a Serra San Bruno.
"nt'a kona" si svolgevano le attività importanti: si allestiva il palco per i festeggiamenti della Madonna della Luce e, nei periodi elettorali, i banchetti per i comizi dei due maggiori e unici contendenti alla poltrona di sindaco. C'era, ricordo, la bottega del barbiere e tre o quattro bar frequentati perlopiù alla fine della giornata da contadini e artigiani. Il calzolaio, il sarto e il falegname avevano bottega lungo la salita che portava a casa mia.
Ricordo, a proposito di dispute elettorali, la battaglia che
aveva come tema l’illuminazione del cimitero.
Caustico, è rimasto impresso il concetto di uno dei
candidati a sindaco in merito alla proposta d’illuminare con la luce elettrica
il cimitero rivendicata da una parte dei paesani e fatta propria dallo sfidante,
considerata indispensabile, mentre, l’altro, ribatté: ai morti non serve la
luce perché non leggono, di notte, libri o giornali e poi, la maggior parte degli
ospiti, anche se avessero voluto farlo non avrebbero potuto perché sono morti analfabeti.
Casa mia era all'inizio del breve rettilineo sul cocuzzolo
della collinetta che, nella toponomastica, era pomposamente definito: Corso
Umberto I, ma per noi, era semplicemente “a kjiazza", la piazza. C’era sì
una piazzetta ma era talmente piccola da non essere presa in considerazione tanto da sembrare uno slargo della strada.
Comunque, all'inizio da’ kjiazza, a destra, in un incavo,
c'erano dei gradini che immettevano in un ballatoio con un muretto alto abbastanza
da tutelare la sicurezza dei bambini. E in fondo, a sinistra, c'era l'ingresso
di casa mia. Una porta fatta con del solido legno di castagno e con la toppa
che, per noi bambini, sopperiva pure alla funzione dello spioncino, tant'era
grande. E il “saliscendi” della maniglia di pesante ferro battuto fungeva da
intrattenimento ritmato. Non avevamo molti passatempi ma sapevamo come
trascorrerlo reinventando quanto avevamo sottomano.
La mia casa natia, era stata portata in dote da mia madre,
secondo l'usanza e la cultura del tempo che dettava regole improcrastinabili,
per cui:
Alla donna spettava portare in dote la casa e il corredo.
Mentre all'uomo i terreni, le proprietà e la forza lavoro.
L'abitazione, in paese, era corredata con l’immancabile
“katuojiu”, una sorta di garage spartano dove alloggiare “a ciuccia”, l’asina,
e anche il luogo per depositare la legna oltreché i finimenti del somaro con le
immancabili ceste alte da legare sui fianchi della soma, il basto, “u mbastu".
Nelle ceste erano allocati i bimbi piccoli durante gli
spostamenti, da un lato, e, per equilibrarle, dall'altro gli utensili e il cibo
necessario per il giorno di lavoro in campagna, ma dipendeva dalla composizione
del nucleo familiare che a volte vedeva entrambe le sporte piene di piccoli
pargoli. “U sangu è ‘na ricchizza!” ripetevano con orgoglio i genitori. E
perciò, le culle erano sempre occupate e piene. Io nacqui in compagnia di una
gemella che non riuscì a sopravvivere oltre le 24ore dal parto.
Non che io abbia memoria di tutto ciò. Pesco dai racconti di
mia nonna per quanto concerne la composizione e l'organizzazione familiare di
allora e nella mia poca esperienza di piccolo bambino con un trascorso storico
che affonda le radici nella tradizione contadina comune a moltissimi in
Calabria.
E proprio in funzione delle abitudini contadine non saprei
dire se sono venuto al mondo nella casa di Corso Umberto I oppure in quella di
campagna dove i miei si trasferivano in estate.
L'estate è la stagione dei raccolti. E dell’impegno faticoso
dell’uomo per fronteggiare la natura rigogliosa. C’era da mietere il grano e
riempire i granai, ricoverare le balle di fieno; raccogliere i pomodori, l’uva;
vendemmiare e pigiare gli acini per fare il vino e le altre conserve per
l’inverno.
Dei pochi anni vissuti tra le mura e per strada in paese e
tra i prati in campagna, ricordo ben poco. Ricordo chiaramente i mio primo
amichetto “dominikupavulu” che abitava affianco a casa mia e che la madre,
“Bettina a sivera” riteneva importante richiamare chiunque
alla corretta dizione del nome del figlio: “Domencopaolo!”. Era una donna molto
severa! Da ciò si desume il nomignolo: a sivera, col quale era conosciuta in
paese. E c’era Maria, la sorella maggiore di “dominikupavulu”, molto amica di
mia sorella Lucia. Erano talmente amiche che per continuare a stare in contatto
anche durante il giorno fecero un buco nella parete divisoria tra le due
abitazioni.
La mia famiglia era numerosa e rumorosa.
Allegra e rumorosa, la mia famiglia, era capace di
interporre, al suono silenzioso della natura, il chiacchiericcio spensierato di
noi ragazzi. La campagna si animava quando noi arrivavamo e associavamo al
suono dolce degli uccelli, le nostre risate nel periodo estivo quando alloggiavamo
nella casa di campagna. Non sentivamo la mancanza dei negozi e non soffrivamo
la solitudine. D’altronde non c’era chissà che in paese da poter essere
rimpianto. Non c’era niente! Persino l’unico punto vendita pubblico nei pressi
di casa non era nient’altro che uno stanzone triste in quella parte di paese.
L’emporio era una sorta di bazar in cui si trovava di tutto e la merce era
venduta al dettaglio, rigorosamente sfusa, come le bustine delle sigarette che
per raggiungere la cifra esatta, all’occasione, conteneva varie specie: alfa,
nazionali con e senza filtro, esportazioni.
Aveva tutto ciò che era ritenuto indispensabile per quei tempi. La mercanzia era accatastata, e non esposta secondo i canoni del marketing. C’erano generi alimentari e prodotti d'uso comune come spago, fiammiferi, candele, grasso per le scarpe vicino alla cromatina, olio per la lampada e per i capelli; si trovavano persino i “simiggi” dei chiodini piccoli con i quali i calzolai riparavano le scarpe, e “i ttacci” delle lunette di metallo che si inchiodavano alle punte e ai talloni per fare durare di più le scarpe, non certo per ballare il tip tap.
E la pasta, solitamente prodotta in casa dalle donne, li,
nella bottega era venduta raramente, ma c’era, e di vari formati: corta o lunga
con la curva, sottile, grossa, simile a cannucce che all’occorrenza era pesata
e incartata in fogli azzurrini.
Non ricordo di averne mai mangiata. Ricordo invece l’odore
della farina impastata con il lievito madre e l’acqua della sorgente e mia
nonna che ripeteva: “cu l’acqua surgiva u pana e a pasta su cchjiù sapuriti”.
Ma quant’era bella la tavola affianco alla madia “a majiddha” imbiancata di farina con le pagnotte pronte per essere infornate e dall’altra parte i “scilatieddhi sfilati cc’ù ferrettu” nella stanza del forno a legna: “u cocipana”, quello lo avevamo anche in campagna. E non avevamo, appunto “a putigha” vicina per comprare la pasta o le pinne di baccalà o le sarde. Invece, non sentivamo la mancanza dei legumi secchi che riempivano i sacchi di juta perché avevamo quelli freschi insieme ai fagiolini e le patate, i pomodori per ottime e squisite insalate, la cipolla fresca, i cetrioli e poi, tantissima frutta: fichi, uva, pere, mele, noci fave, piselli e ceci.
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"asparagi selvatici" |
“Vajianieddhi e patati; ‘na nzalata e pumaduori e citrola;
du fhicu, a racina; i pierzichi. I pira, i nuci, u posiddhu, i fhavi, i ciciari”
erano molto più salutari dei prodotti che stavano ben in vista all'ingresso
della bottega semibuia per evitare di fare entrare le mosche, che attratte
comunque dal fresco andavano ad appiccicarsi sulla striscia insetticida che
pendeva dal soffitto affianco alla lampadina.
Da quando il ddt era
stato messo fuori commercio perché nocivo, nelle case comparve la pellicola
insetticida rivestita con colla profumata che, attraeva le mosche e gli altri
insetti e vi rimanevano incollati.
Anche se, voglio sperare che fosse comunque mercanzia non
contaminata dai pesticidi e dalle altre diavolerie che nel tempo hanno
condizionato le nostre abitudini alimentari e l’esigenza del mercato
agroalimentare, in quei tempi anche noi ci servivamo dei prodotti in vendita
nella bottega.
La bottega era inserita in un vecchio fabbricato
ristrutturato da poco. Era arrivata voce di un nuovissimo ritrovato per l’edilizia
che avrebbe soppiantato le vecchie tradizioni in quanto a serbatoi per la
raccolta dell’acqua, le tubature e il tetto: l’eternit!
Un manufatto realizzato con polvere di amianto e cemento.
Con garanzie d’indistruttibilità, dalla durata eterna, appunto.
Però, era esteticamente brutto, si presentava male! E questo
fece desistere i miei genitori che non amavano il colore grigio dell’ondulina,
stampata, appunto, per neutralizzare le tegole nelle coperture delle case. Ma
no! Come puoi affiancare quella lastra grigia alle tegole. No no “i ciaramidi
su belli, hannu chiddu culura sanguigniu no no ‘o n’è cosa no!”. Ritennero
l’accostamento ondulina tegole un innesto contro natura. E loro d’innesti ne
capivano! Sapevano come innestare gli alberi per ottenere ottimi frutti e
irrobustire la pianta.
Cosicché scesero a Squillace, dai “ciaramidari”, e
ordinarono le tegole necessarie per riparare il tetto.
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