Ho sempre guardato alla politica con spirito romantico. E pensato
che fosse opportuno schierarsi dalla parte dei buoni. Quelli che lavorano, non
lottano, perché la lotta presuppone violenza, per migliorare la società e far sì
che regni la pace e la prosperità tra i popoli.
Da ragazzo pensavo che ci fossero due campi avversi. Uno era buono e l’altro cattivo. Una divisione netta tra bene e male. In uno schieramento c’erano i padroni che tutelavano le proprie ricchezze e i relativi privilegi, quindi il male. Dall’altra i miseri, i poveri che avevano solo gli occhi per piangere e la cui unica ricchezza era quella del sangue: i figli, la famiglia ed eventualmente un pezzetto di terra dove spaccarsi la schiena, lavorarla e farla produrre col sudore della fronte. Impugnare la vanga, e con i calli sulle mani per necessità.
Gli zoticoni proletari e i benestanti! Signori dalla pancia
piena, affrancati dai comuni affanni della povera gente che, affacciati dai
balconi sulle piazze centrali, guardano nella fossa infernale sottostante piena
di povera gente costretta a soffrire, in attesa del caporale.
Con simili idee affrontai il mondo appena uscito dal
collegio. Mi pesò la formazione umanistica ricevuta al “don Bosco di Napoli”.
Con insofferenza, costretto dalle vicissitudini familiari,
proprio nell’età della pubertà. Crebbi in fretta. E quando dovetti prendere il
treno che da Napoli mi avrebbe ricondotto a Catanzaro, indossai gli unici
indumenti che calzavo: un pantaloncino corto e una maglietta recuperata dalla
guardarobiera tra i panni donati, credo, dalla caritas o da qualche altra associazione
benefica. Diventai grande fisicamente perché mi accorsi che il vestito blu col
quale ero partito da casa era diventato piccino. Non ci entravo. E poi, nel
1972, l0immissione nel mondo del lavoro.
L’inesperienza mi giocò brutti scherzi. Le realtà lavorative
hanno sfaccettature che si colgono solo con l’esperienza. Lentamente si
comprendono i meccanismi e prima di esserne padrone si resta vittime del
sistema e della scaltrezza dei colleghi.
L’arrivismo di certi è uno dei problemi da non
sottovalutare. Le paure dei sottoposti leccaculo che diventano delatori a cuor
leggero. E le strategie sindacali non sempre in sintonia con le aspettative dei
lavoratori sono i primi a scuotere le certezze. Non per cattiveria, ma perché
alcune posizioni mutavano al tavolo delle trattative, necessariamente. Allora ci
si accorge che trattare è una disciplina e nel gioco delle parti, si cede e si
ottiene.
E si prende coscienza della commistione, giusta o sbagliata
saranno gli effetti prodotti a definirla, tra i rappresentanti dei lavoratori e
l’azienda. E che stare perennemente sul piede di guerra non è un atteggiamento
salubre per nessuno. Ma l’interesse è interesse! E le parti tendono ad ottenere
il massimo.
L’azienda e i quadri da che mondo è mondo, tirano per i
“padroni”, quindi cercano di ottenere il massimo della produttività. E le
maestranze, sempre nel rispetto del contratto collettivo del lavoro, e senza nuocere
alla produzione, chiedono in contropartita aumenti di salario, ferie, permessi
sindacali e rivendicano istituti contrattuali migliorativi, non solo economici.
In quegli anni, ’70 e ’80, si ottenne molto: la settimana
corta, ferie per maternità, malattia, diritto allo studio. Si pensava di essere
arrivati alla soglia della giustizia sociale. Il divario tra le classi si era
assottigliato.
Il mercato del lavoro, la produttività, i profitti aziendali
e la coogestione tra sindacato e azienda, ebbe un’impennata. Le ascisse e le
ordinate sulla lavagna cartesiana ideologica anche se non crollarono furono messi
in standby dalle parti.
Fino a quando, per una serie di motivi socio economici e
politici le aziende subirono la crisi del secolo. Anche le aziende in salute
dovettero recidere i cosiddetti rami secchi. Alcune aziende proposero incentivi
economici ai dipendenti per auto licenziarsi. Altre sfruttarono la cig fino all’esodo
dei lavoratori in procinto di andare in quiescenza. Altre ancora attuarono
l’accompagnamento alla pensione per quanti avessero maturato determinati meccanismi
contrattuali e sociali in accordo con il governo.
Si formò una categoria nuova, ignota fino a quel momento,
quella degli esodati. Lavoratori da riqualificare e ricollocare. Ma non andò
così.
Moltissimi esodati furono cooptati nei lavori di pubblica utilità, inseriti negli uffici ma senza le garanzie contrattuali dei colleghi con eguali mansioni assunti dalle amministrazioni ospitanti. Insomma, le organizzazioni sindacali, abtorto collo, si fecero promotori di una nuova categoria di lavoratori sfruttati per contratto che ancora adesso pagano lo scotto con contratti atipici, chiamate a tempo indeterminato, cococo, o come dir si voglia, comunque: precari!
È vero che non si possono spostare i mari e le montagne ma si
possono navigare, esplorare, scalare…
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