Il rito del pane nella famiglia calabrese.
Il forno a legna era ubicato in soffitta e affianco c’ere la
bocca enorme del camino. La casa era strutturata a mo’ di torre. Gli ambienti,
disposti in verticale, richiedevano una manutenzione abbastanza faticosa.
Come si può intuire il trasporto della legna fino in
soffitta non era uno scherzo anche se il nonno, uomo ingegnoso e creativo, si
era costruito una carrucola con una vecchia ruota di trebbiatrice. Aveva conficcato
un gancio robusto nella trave della capriata e la grossa corda penzolava giù
nella botola fino a terra, nel seminterrato dove era ricoverata la mula e,
ovviamente, si depositava la legna.
Fare il pane era una cerimonia dal profumo avvolgente.
La nonna, mamma e mia sorella iniziavano a preparare l’ambiente
e le vettovaglie necessarie dalla sera.
Subito dopo cena, sistemata la cucina e messo a letto i
piccoli, le donne di casa posizionavano la madia su dei trespoli bassi quanto
bastava per impastare la farina con naturalezza.
Le notti d’inverno era piacevole stare a guardare accarezzati
dal tepore del forno e dalle parole delle donne indaffarate nella preparazione
del pane. C’era serenità. Spensieratezza. Nonostante la fatica e la vita
spartana nei campi.
Nonna e mamma posizionavano il sacco della farina nei pressi
della madia. La versavano e, particata una fossa al centro, aggiungevano acqua,
sale e il lievito madre. Iniziavano a impastare dai bordi. Tiravano giù la
farina. La facevano cadere nella pozza d’acqua e le mani iniziavano a
scomparire tra la poltiglia bianca.
Quando l’impasto iniziava ad essere consistente e non si
attaccava alle mani iniziava una sorta di lotta. Le donne torcevano, piegavano,
piggiavano coi pugni chiusi l’impasto e quando ritenevano di avere raggiunto la
giusta consistenza smettevano di lottare. Coprivano il tutto con una tovaglia
di cotone e delle coperte.
Nel frattempo la legna bruciava allegra nel forno. C’era da
attendere un paio d’ore prima di poterlo dividere in pani e infornare. La lievitazione
richiedeva dei tempi d’attesa. E nel frattempo si raccontavano storie e fatti
accaduti. Si parlave del raccolto e delle nascite. Di matrimoni e partenze. E di
morti.
Poi, misurando visivamente il volume delle coperte e la
quantità della legna consumata, la nonna indicava il da farsi. Tere’ prendi la
scodella per la comare Vincenza che le diamo “u levatu” (il lievito madre) che
deve panificare domani. Quindi tolto il lievito madre per la prossima
panificazione e la comare si iniziava a fare i pani. Il compito di mia sorella
era di sistemarli sul tavolo e coprirli con delle tovaglie di cotone. Alla fine,
messe su delle altre coperte di lana, si riattizzava il fuoco nel forno e si
andava a letto per qualche ora. L’impasto doveva fare la seconda lievitazione.
Intorno alle tre di notte iniziava l’infornata. La nonna
toglieva il tampone dalla bocca del forno. Spostava verso l’esterno la brace. Puliva
la base dalla cenere e vi depositava le pagnotte. Un’ora! Al massimo un’ora e
mezza. E poi il profumo del pane appena cotto inondava la casa.
Avete mai provato a tagliare il pane appena sfornato e
metterci dentro un cucchiaio di cicoli? Oppure del prosciutto crudo? Ma non il
prosciutto crudo sottile commerciale. Parlo del prosciutto casareccio tagliato
col coltello, spesso e col grasso.
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