"cuzzupa" |
Vacanze a parte, il periodo della pentecoste lascia ricordi indelebili nella mente di ognuno, basta l’odore delle cuzzupe calde, fatte con farina, grasso di maiale, uova, lievito e latte, che le donne calabresi impastano in un attimo e, raggiunta la giusta consistenza, la pasta assume le forme più disparate, ciambelle guarnite con uova sode, sette per il fidanzato, come auspicio per farlo sedere e non lasciare la casa della ragazza innamorata, uno, tre, ma anche nessun uovo per gli amici. Qualcuno per la suocera.
Cuzzupe a forma di ciambella, di bambole, cestini e lettere dell’alfabeto quando è indirizzata a una persona specifica.
“a cuzzupa”, dolce pasquale calabrese, assomma peculiarità antropologiche territoriali e qualità organolettiche singolari, che, alla stregua delle madaleine di proustiana memoria, ha il dono di riportare indietro nel tempo chiunque si trovi nei pressi di una casa o un forno.
Un tempo, le donne che non possedevano forni adatti alla cottura dei dolci pasquali portavano l’impasto crudo ma già modellato ai panificatori; disposte in grandi teglie simili a quelle delle focacce in uso ancora adesso, le cuzzupe coperte con canovacci, erano il simbolo della tradizione e della festa da consumare a pasquetta, in Sila o al mare.
L’aroma di cannella tracciava i percorsi dalle case fino al forno. Le donne consegnavano le “lande” al fornaio e aspettavano la cottura. Alcune le trasportavano sulla testa, dimostrando doti di equilibrismo. A volte, la signora Bianca, la moglie del fornaio, invitava a tornare più tardi, oppure suggeriva e assegnava dei turni all’alba, dopo la panificazione per snellire il via vai.
"a cuzzupa" prima di andare in forno nella teglia imburrata |
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