racconto breve. tutti i diritti riservati ©mario iannino
Il graffio dell’aquila
Le strade vuote sono solo un ricordo, come pure la familiarità dei volti che s’incontravano un tempo durante la passeggiata. Ora, i “quattro passi per incontrare gli amici” sono rimpiazzati dallo shopping frenetico e le strade cittadine sono il luogo d’assedio di un intenso esercito d’acciaio, rumoroso e arrogante. Le macchine invadono le corsie, i marciapiedi e persino gli scivoli per i disabili. Mezzi meccanici e dissuasori ostruiscono l’accesso dei negozi, delle case… E gli incroci?, gl’incroci sono diventati punti nevralgici di improbabili affari: gente di tutte le razze aspetta il rosso per tendere la mano, lavare il vetro o offrire fazzoletti di carta!
La vecchia fisarmonica ha una voce flebile; è quasi un lamento impercettibile. Mi accorgo della presenza dell’uomo dall’ombra che mi butta addosso. Alzo lo sguardo: sarà alto un metro e sessanta; cicatrice sulla guancia destra e capelli crespi ossigenati. “Dare tu kualcosa pe manciare crazie”. Ripete con voce roca il miserabile, a noi, benestanti automobilisti italiani. A dire il vero sono pochi i finestrini che si abbassano e le mani che sbucano con qualche moneta per la ragazza che agita stancamente il cestino della questua.
Alla mia destra, il conducente della piccola cilindrata freme; scarica la sua vitalità sui comandi del mezzo meccanico personalizzato all’inverosimile:
L’egocentrismo giovanile contamina gli oggetti; li modifica secondo un’intima estetica, che, a primo acchito, può sembrare dissacrante, priva di leggi ma non lo è! La giovane esperienza legittima una filosofia di vita che li uniforma tutti; li rende somiglianti al proprio sentire, li correda di simboli e i loro feticci diventano l’appendice naturale di una personalità plurale.
Nel caso in questione, il carattere del singolo si manifesta attraverso i colpi d’acceleratore che fanno a gara col volume dello stereo, la grinta, i tatuaggi ed i capelli sparati. Meglio ignorarlo! Dirigo l’attenzione verso il semaforo. Oltre la luce rossa, dall’altra parte della strada, la piazzola del bus è invasa da calchi di gesso dozzinali e piante sempreverdi a dieci euro. Il mercante di statue parla col venditore di piante. Sgasate rabbiose sollecitano il capofila ancor prima che scatti il verde. Le moto impennano. Scatta il verde. Ingrano la prima. Il serpentone d’acciaio, di cui io faccio parte, fa pochi, pochissimi metri, giusto il tempo d’oltrepassare l’incrocio e scrasc s’arresta. La signora, dopo il primo attimo di smarrimento, reagisce con forza. Estrae il telefonino e spegne il motore, determinata a non spostarsi fino all’arrivo della forza dell’ordine. I clacson impazziscono. Le macchine contromano impediscono ogni tentativo di manovra. Non rimane che aspettare! L’ingorgo aumenta. Qualcuno scende dalla macchina e s’avvicina al luogo dell’incidente. Dal nulla, spunta un nugolo di ragazzini minuti. Il più piccolo arriva appena al finestrino; si alza sulle punte e bussa al vetro. Fa tenerezza. Nonostante ciò, non abbasso il vetro. Lo osservo mentre disegna cerchi concentrici sul finestrino: le sue unghie contornate da un velluto nero scivolano sulla superficie. Mi sorride! Si gratta i capelli arruffati; strofina la manica sfilacciata sulla bocca e passa oltre. Lo seguo con gli occhi sgattaiolare tra le macchine. Di tanto in tanto si gira, guarda indietro. Attraversa, e ripete le stesse movenze sull’altra corsia. Ormai il traffico è intasato. Il piccolino, si affianca ad uno più grande; gli sta dietro, chiede qualcosa, poi lo abbandona e riprende a grattare con la manina sui vetri delle macchine. Il venditore di statue indica un percorso alternativo.
Alcuni automobilisti imboccano una stradina laterale non asfaltata e, dopo pochi minuti, ricompaiono qualche metro oltre l’incidente. Seguo il loro esempio. La macchina saltella; le ruote sprofondano nelle buche salgono sulle pietre torcono i bracci; ed io, sballottato da una parte all’altra, faccio fatica a tenere lo sterzo. Qua e là, quasi buttate a caso, lungo il precorso accidentato sorgono delle costruzioni in lamiera e mattoni. Un ruscello putrido attraversa le baracche popolate da marmocchi; qualche cane, un paio di capre e due asini. La stradina finisce davanti l’ultima casupola poggiata al muro di pietre ingabbiate nella rete metallica. Faccio retromarcia; posiziono la macchina, ingrano la prima e mi blocco: un enorme cane rabbioso, sbucato da chissà dove, ostruisce il passaggio. Lui, la bestia, abbassa il muso, digrigna i denti e mi punta. Do gas lentamente; cerco di aggirarlo. Svolto dietro la baracca. Giro l’angolo: cinque viuzze tutte uguali si aprono a ventaglio. Ne prendo una a caso, confidando nella buona stella. Lo scenario non cambia: rottami disseminati dappertutto, carcasse di macchine, lavatrici, ferrivecchi, baracche e la belva che digrigna i denti sempre davanti a me. Le donne sull’uscio mi scrutano diffidenti. Un uomo fa cenno di fermarmi. Freno; abbasso il vetro e: “Cerchi qualcuno?” “No, credevo di sbucare da qualche parte oltre l’ingorgo ma mi sono perso!” il villaggio si anima. Una marea di marmocchi accerchia la macchina. Una donna fa segno che c’è una gomma a terra. Cerco il cane: non lo vedo. Scendo. I bambini m’indicano la ruota. Impreco. Mi guardo attorno diffidente. Apro il cofano. L’uomo m’interroga nuovamente, ma questa volta in dialetto: A sai cangiara? (1) –e senza aspettare risposta, intima: Totò provvìda! (2) Prontamente, Totò, esegue gli ordini. Il cane abbaia; i bambini lo trattengono. L’uomo lo zittisce-.
Il muraglione in cemento grigio a ridosso delle baracche è ricoperto di graffiti e tag. La faccia oscura del sociale graffia le anonime superfici con parole colme di sonorità cromatica. Anche la baracca dell’uomo è pregnante di ritmi forgiati dall’intreccio artistico dei messaggi grafici cari alla tensione creativa hip hop. I pezzi, sembrano voler recuperare le relazioni sociali degradate attraverso gli spazi urbanizzati rozzamente; ingentilirli, con l’estetica provocatoria delle parole urlate, col gesto veloce dell’alfabeto mobile legato all’anarchia creativa dell’anima, proprio laddove si sviluppano strategie d’integrazione ma anche di resistenza e disfunzioni. Belli, vero? È la nostra risposta alla dissoluzione dell’individuo, alla lotta per la sopravvivenza, all’integrazione vera e non declamata solo in certe occasioni. –Mi dice l’uomo, leggendomi, probabilmente, lo stupore in volto.-
La tag corre sinuosa dal muro alla baracca; le evoluzioni cromatiche sono un chiaro riconoscimento di rispetto e ammirazione di quanti hanno partecipato alla realizzazione del pezzo dedicato ad “Aquila della notte”. La “A”, incisa per tutta l’ampiezza della porta e oltre perde i suoi connotati originari per trasformarsi in virtuosismi grafici avvolgenti, dinamici, in continua trasformazione; l’uomo la spinge, ruota di 180° e la porta si apre. L’ambiente in controluce è impenetrabile. L’uomo m’invita ad entrare. L’atmosfera rarefatta dalla mancanza di un’adeguata illuminazione e dall’odore acre della vernice, genera un déjà vu. Dalla penombra sbuca un esserino minuto: capelli corti e neri; maglione abbondante e jeans enormi col cavallo all’altezza delle ginocchia. Tasche capienti e qualche macchia di colore sparsa qua e là sugl’indumenti. Lamiere e cartoni graffiati di colore arredano lo spazio interno. Il fermento creativo è vivo, palpabile, forte; t’investe in pieno e ti avvolge in un abbraccio focoso, inebriante. L’esserino ci guarda appena mentre continua a giostrare attorno ad un cartellone pubblicitario divelto dal maltempo. Non c’è cosa più bella che elaborare un pezzo in tutta tranquillità, anche se, l’atmosfera della notte è tutta un’altra cosa. La scarica d’adrenalina ti spinge a lavorare di getto, non hai tempo per studiare il bozzetto. Sei lì, davanti alla superficie. Tu e lei avvolti dalla notte. È una sfida che esige rispetto. Rispetto per la superficie e per i graff che ti hanno preceduto. Devi dirigere l’aggressività e trasformarla velocemente nel getto di colore con precisione, senza sgocciolature, in un messaggio immediato che dia una risposta autentica alla cultura del divismo imposta dal sistema. - L’uomo, parla estasiato. E, nel contempo, versa qualcosa in una sorta di bicchiere -. Tieni…Alla salute!
Afferro il capriccio di latta riciclato con maestria e senso estetico estremi e bevo. Le pareti leggere, quasi inconsistenti del gotto s’affossano alla minima pressione delle dita, mentre il bordo, rigirato più volte, dà la giusta consistenza al manufatto. La base larga, ossigena il liquore, invece, il collo stretto trattiene il profumo ed esalta le qualità organolettiche… –Spiega il mio ospite, indicandomi il bicchierino- …mmh… È un nettare, vero? ‘Na purvhara!(3) Questa volta mi è venuto meglio…veramente ottimo…questo retrogusto fruttato.
-Conferma tra un sorso e l’altro- Vedi, -riprende con aria assorta- noi viviamo un assurdo controsenso: se facciamo i pezzi nei luoghi consacrati dal sistema, questi, sono accettati e immessi nei canali del mondo dell’arte se invece ci beccano a proporre il nostro dissenso su muri o cartelloni pubblicitari, che solo per essere stati eretti diventano un oltraggio estetico e morale, allora, siamo dei vandali, imbrattatori e fuorilegge. E loro?, che inquinano lo scenario urbano con la pubblicità? Loro che sono? Eppure, piantano in maniera criminale queste gigantesche finestre commerciali proprio in pieno centro storico, oppure ai margini di un incrocio; però, siccome fruttano soldini non danno fastidio a nessuno neanche quando causano incidenti gravi. In questo caso non inquinano il paesaggio: lo distruggono!, insieme alla percezione estetica del passante…di questo passo l’eutanasia mentale della collettività è scontata! Noi vogliamo evitare che ciò accada; vogliamo evitare la piattezza mentale, noi siamo i paladini della creatività costretti a cercare rifugio nelle foreste delle periferie, noi siamo i novelli martiri perseguitati dall’ingiustizia che occupa gli spazi giurisdizionali. Il nostro fare creativo diventa per loro sporcizia, utopia, fantasia inutile. Ma noi siamo i giardinieri della notte, votati a rimodellare le brutture della giungla urbana nel bosco sacro delle responsabilità umane più alte. – Nel dire ciò, alza la testa, tende l’indice in alto e, invitandomi a guardare nella stessa direzione, incalza- Vorrei avere lunghe braccia per coprire di colore l’arco del Morandi; graffiare ali d’aria ai suoi piedi e lenire il grigiore del cemento col mio spray… Una notte lo farò! Sì lo farò! Lo voglio illuminare d’amore con colori più belli dell’arcobaleno. I fari, a confronto, impallidiranno; ho già il bozzetto qua, in testa!, ma, non posso confidare in un’impalcatura, devo trovare un metodo per volare da una parte all’altra… Sarà il pezzo…” “Aquila oggi parli troppo!” “Hai ragione, è vero! … Lei è Marte, Marte99.” “Ciao!” “Ciao” “Il suo primo pezzo importante lo ha firmato nel 99, in Francia, a Parigi, sulle palizzate del Beaubourg…”
Capelli corvini; occhi neri e carnagione scura. Mento leggermente volitivo. Collo corto ma snello. Fisico asciutto; altezza un metro e cinquanta circa. L’esserino che si cela sotto lo pseudonimo di Marte 99, cambia beccuccio alla bomboletta, poi, l’afferra decisa; preme col pollice, e, ubbidiente, alle movenze repentine della mano, il getto, rosso, corre a coprire campiture larghe e sinuose. Si arresta; afferra un’altra bomboletta: la nebulizzazione, canalizzata costantemente con l’indice produce soffici fili, circoscrive macchie, avanza, cambia direzione in un susseguirsi di linee nette. Il sibilo s’affievolisce. Un grumo ottura il beccuccio. Marte agita la bomboletta. La biglia d’acciaio percuote le pareti di latta. Il rollio cessa; la biglia tace. Marte capovolge la bomboletta. Preme. Niente! Cambia nuovamente il beccuccio e spruzza ma…esce solo aria. La butta con stizza in un angolo; strofina le mani sulla salopette ed esce. Allarga le braccia, respira profondamente, ruota i pugni nell’aria e s’incammina su un tracciato che punta dritto alla base del ponte.
Più in là, i piedi del gigante in cemento armato si piantano saldamente nei fianchi dei monti, unendoli. Il suo arco imponente sovrasta la valle. Sembra davvero un arcobaleno smunto che, amalgamato ai cubi in controluce, eretti sulle sommità estreme, rovescia l’ombra lungo i pendii fino a sfiorare le baracche sottostanti ai margini della Fiumarella.
Non piove da diversi mesi; e il carattere torrentizio della Fiumarella è reso tangibile dall’esiguo rivolo d’acqua che scorre timidamente. La pozza, alimentata per lo più dagli scarichi domestici, è insufficiente, nonostante tutto, il ragazzo apre la chiusa. L’acqua, s’inoltra nei canali d’irrigazione, mitiga i cretti dei solchi e irriga i pochi ortaggi della comunità.
Aquila della notte annusa l’aria; osserva attentamente il cielo, da nord a sud: Tra poco avremo la pioggia, finalmente! Sarà poca, ma basterà alla natura. Lentamente, il sole s’adombra. Nuvole grigie coprono la vallata e le prime gocce cadono larghe sui tetti in lamiera delle casupole. I bambini continuano a giocare anche quando l’acquazzone sferza la terra e rimbalza sulle lamiere dei tetti. Il più giocoso dei marmocchi simula di fare la doccia; altri, saltellano nelle pozzanghere. Il cane si scrolla il pelo. Marte, incurante, prosegue verso la base del ponte. Non fa freddo; anche se siamo al dodici d’ottobre, l’atmosfera è tipicamente estiva: acquazzone violento e improvviso, vestiti incollati sulla pelle bagnata; mocassini tutt’uno coi piedi ammollati e tanta euforia nella comunità di Marginalia. Dall’altra parte della strada, oltre la baraccopoli, la gente rimane assiepata sotto i portici dei grandi magazzini, aspettando che spiova. Il traffico adesso scorre.
Ecco, il cielo si sta aprendo; tra poco smetterà di piovere. Però, è meglio se ti cambi. Vieni ti do roba asciutta; non sei abituato ai disagi della strada, rischi un’infreddatura. Anch’io, prima, un’esistenza fa, stavo nella bambagia. Avevo perso la voglia di vivere; ogni cosa era scontata: ufficio, casa, chiesa; spesa al sabato per vent’anni, poi, la crisi portò le aziende a segare i rami secchi, proprio così, ci definirono rami secchi; improduttivi, resi obsoleti dalla tecnologia. Cosicché, mi trovai dall’oggi al domani, a cinquant’anni, in mezzo alla strada, senza arte né parte. Realizzai immediatamente l’inconsistenza che corre tra i proclami intellettuali e la cruda realtà. Gli amici sfuggivano. Con garbo, atteggiavano le labbra ad una smorfia di sorriso e si stringevano nelle spalle…:Hai provato dal commendatore, lui è un uomo potente!, dicevano. Costretto dalle circostanze ci andai, ma ognuno aveva un problema. E intanto i debiti aumentavano: bollette, spesa a credito, libri, vestiti da pagare; fin quando, un giorno, al rientro trovai un biglietto con poche righe all’ingresso di casa: Scusami, non ce la faccio a stare in queste condizioni. Non è questa la vita che sognavo. Addio. Girovagai per casa; illudendomi che fosse uno scherzo, aspettai fino a sera. Lì, ogni cosa mi parlava di lei. Sfogliai vecchi album; rivisitai mentalmente gli attimi spensierati, le seghe a scuola nei giorni tiepidi di marzo, le scampagnate con gli amici. Andai in chiesa, e mentre andavo ripetevo: nel bene e nel male nella buona e nella cattiva sorte. Lacrime di delusione e rabbia scendevano silenziose ad impastare d’acredine le parole appena bisbigliate. Avvertivo appieno l’impotenza dei derelitti, degli uomini emarginati dalla società con leggerezza assurda. Eppure, fino a poco tempo prima ero un membro della comunità stimato e rispettato. …Come tutto è relativo!
La macchina mi lasciò alla sommità di viale De Filippis. Non tolsi neanche le chiavi nello scendere. M’incamminai senza meta; d’altronde che traguardo potevo prefissarmi? Giunto nel mezzo del viadotto Morandi, guardai l’orizzonte. Seguii la sua linea cangiante per 360°; poi, guardai giù a valle, fino al mare, seguendo il solco morbido della fiumarella. Accattivante, il vento, mi scompigliava i capelli; scuoteva le fronde degli alberi sottostanti e, nell’azzurro del cielo, teneva alto un deltaplano, gonfiava la fibra del parapendio, sospingendoli nell’immensità. Un falchetto sfruttava le correnti sul letto del torrente…Sfilai le mani dalle tasche e le infilai nella feritoia della rete di protezione. Aprii il pugno. Le chiavi di casa volarono giù; seguii il luccichio fin quasi dentro le fronde della vegetazione poi, non li vidi più. Rimasi lì non so per quanto tempo ad osservare i misteri della vita e della morte, nello spicchio di cielo sul mar jonio, poi, attraversai il ponte; imboccai la bretella per via Carlo V e girovagai nelle vie del centro fin quando sentii male ai piedi e allo stomaco. Spesi gli ultimi spiccioli per uno sfilatino nella trattoria dei camionisti in piazza mercato e mi trovai a caricare pacchi per un trasloco diretto in Francia. Fu così che decisi di farmi trasportare dal vento e campare alla giornata. In breve, mi unii ai clochard; da loro imparai i segreti della strada ed una notte, sul lungosenna, vidi qualcosa d’inconsueto: un’ombra furtiva si agitava concitatamente lungo gli argini della Senna laddove gli emarginati sonnecchiavano al riparo dei cartoni. La tag appena tracciata sgocciolò mortificando l’enfasi creativa del principiante che, intimorito dall’arrivo dei graffitari della zona, scappò lasciando cadere la bomboletta. La banda coprì abilmente le sbavature e ogni componente firmò il pezzo. In seguito capì che nessuno, specie un Toy, può invadere il territorio rivale; solo i pezzi migliori vengono rispettati e quando si raggiunge la completa padronanza esecutiva iniziano le sfide ad alti livelli. Mi piacque la loro filosofia di vita. Non ci sono capi ma Maestri e la maestria deriva dal lavoro fatto sui muri della strada. Ma, torniamo a quella notte:
Raccattai la bomboletta e, incuriosito provai a decorare un grosso masso. Avevo poco a disposizione: la bomboletta, dei tizzoni spenti, pietre e terra. Malgrado la scarsità di mezzi feci una cosetta apprezzabile che, nei giorni seguenti, attirò l’attenzione dei graff. Mi piacque; e, i commenti di quei ragazzi, fecero riaffiorare in me l’autostima. Iniziai, così, a sviluppare progetti visivi per affermare l’esistenza di realtà diverse da quelle stereotipate dai media. Nessuno sospettava di me ed io lasciai montare una storia metropolitana alquanto romantica. Data l’irruenza espressiva, i writer’s credevano che l’autore fosse un giovane pacifista che gridava il suo dissenso visualizzando con veemenza i sogni propri della giovinezza sui muri parigini. Le bande non proteggevano più gelosamente i rispettivi territori dai graffi estranei ma creavano spazi con dediche per il giovane anarchico. Anche le istituzioni, chiaramente con scopi differenti, si dedicarono al fenomeno: le gallerie volevano l’esclusiva; i sociologi, approfondire gli studi e le forze dell’ordine arginare l’ondata cromatica metropolitana. Iniziò la caccia a “ l’Aigle de la nuit”. Io, non avevo mai firmato i pezzi, ma loro, specie i media, dovevano trovare un appellativo e lo trassero dal “graffio dell’aquila” che feci in omaggio alla mia città in un momento di nostalgia.
Avrei potuto cavalcare l’onda, sfruttare il momento propizio, ma non mi andava di ritornare tra le fila istituzionalizzate dal potere economico; il mio posto era ai margini per mantenere fede ai principi dei giustizieri della notte, dare voce ai vessati e far sgorgare l’allegria dalle brutture urbane dando nuove vesti alle colate di cemento. E poi perché mercificare un prodotto che viveva della sua libertà?
Purtroppo, come in tutti i buoni propositi, avevo fatto male i conti:
L’avidità della società mercantile riuscì ad appropriarsi di alcuni pezzi e immetterli sul mercato. Anche il “graffio dell’aquila” aveva spiccato il volo. Ero furibondo! A rafforzare la dose, intervenne la notizia a tutto tondo dell’imminente mostra dei graffiti in una nota galleria. E non era finita lì. La foto del fantomatico autore capeggiava dalle testate dei giornali francesi.
A quel punto, dovevo ponderare accuratamente il da farsi: qualsiasi reazione poteva ritorcersi contro di me e la poetica del movimento. Stavo rimuginando una serie di congetture quando mi si affianca un ragazzetto piccolo e minuto, infagottato nella salopette di jeans di non so quante misure più grande e mi dice risentito:
Quest’usurpazione è una beffa bella e buona! Perché permetti che ti manchino di rispetto? Lo so ch’è tutta una farsa che sei tu Aquila della notte! Ti ho seguito sai. Non puoi negarlo. Lascia perdere l’anonimato e sputtanali tutti questi bastardi!
Non sapevo cosa rispondergli. Mi aveva sorpreso quella sua carica di gracchiante insolenza. Oltretutto, c’era qualcosa che non mi convinceva. Non trovavo coerente le movenze aggraziate, il timbro della voce, l’abbigliamento e la sfrontatezza delle parole.
Allora, gliela fai pagare a quei bastardi mercenari? Se vuoi ti do una mano! Guarda ti ho portato delle bombolette…
Ma ma queste sono le stesse… Allora sei tu che mi lasci le bombol… ma perché per quale motivo.
Tu sei bravo ed io voglio apprendere da te. Me ne sono accorta quella notte che la banda ha cancellato le mie scolature.
“Accorta?” ma sei una ragazza che fai in giro di notte? I tuoi non stanno in pensiero? I miei? E chi li vede, quelli pensano solo a fare soldi! Per loro sono trasparente. L’importante è non creargli casini. Non fargli perdere la faccia con i loro conoscenti per il resto, posso fare quello che voglio. Ma non sono loro il problema, torniamo a noi. Gliela facciamo pagare? Gl’imbrattiamo l’entrata della galleria con la merda…No!, facciamo una cosa più civile, li combatteremo con le loro stesse armi. Posso contattare un’emittente privata…
La pioggia è ancora nell’aria. Non ho minimamente coscienza dell’ora. Ascolto il racconto. Lui, parla lentamente con lo sguardo fisso in un punto. Sopra di noi, maestoso, l’arco del viadotto Moranti/Bisantis accorcia le distanze, ed in basso, tra le sponde della Fiumarella, la vecchia sede stradale d’accesso alla città segue la morfologia del terreno tra salite e discese, tornanti e brevi rettilinei. In fondo, oltre il ponticciuolo che unisce le sponde del torrente, si vede la radura spoglia del “bersaglio” usato dai militari per le esercitazioni di tiro e dai ragazzi per le sfide di pallone.
Bene! Ecco, tieni. Porta questo graffio e fallo inquadrare bene dalle telecamere. Di loro ch’è il graffio della vera Aquila!, di anche che non è nella sua mentalità commerciare l’arte della strada. Il messaggio è indirizzato a tutti; ed ha motivo d’esistere fin tanto che copre lo spazio pubblico scelto dall’autore, altrimenti diventa semplice decorazione che rasenta l’assurdo estetico al pari dei totem pubblicitari eretti dal sistema mercantile. Ribadisci con forza che solo il legame col territorio conferisce vita e carattere al graffito. Le circostanze in cui nasce e la valenza propositiva sono in relazione strettissima con l’ambiente metropolitano. E, concludi ferma: che la smettessero con questa pagliacciata! Ah, un ultima cosa, non ti fare riprendere dalle telecamere. Non cadere nei loro tranelli.
Com’è buffa la vita! Qualche ora fa, ero alle prese col traffico. Attento e concentrato sul da farsi; ripassavo mentalmente gli impegni della giornata. Fremevo per arrivare in centro ed ora sono qui ad ascoltare le parole di questo vecchio. I bambini giocano, scrivono i loro nomi sui muri grigi delle baracche. Un personaggio singolare è alle prese con una strana struttura in ferro: assembla di tutto, persino un cesso rotto. Intorno a lui spuntano strani oggetti. Esseri surreali sembrano usciti dalla mente annebbiata e popolano i quaranta metri quadrati del suo raggio d’azione. Marte sta tornando dal suo giro; ha in mano un cespo di lattuga. Aquila continua a raccontarmi della sua vita ed io sto a sentirlo in religioso silenzio. Mi piace ascoltarlo.
…ma mi sbagliai. Sortì l’effetto contrario. Il mercante, prese la palla al balzo e montò un evento mediatico incalzante sui palinsesti. Sai quale fu il risultato? Vendette tutto la sera stessa della vernice.
Ero furibondo ma non potevo fare altro. Non avevo voce. Ero simile ad un fantasma: inconsistente. Potevo solo logorarmi il fegato e rassegnarmi a soccombere all’insolenza del più forte. D’altronde, non era né la prima né l’ultima, così intascai l’ennesima esperienza negativa degli anni di vagabondaggio e realizzai che l’impotenza dei deboli non riscatterà mai i giusti! Però, mentre mi piangevo addosso, lei, Marte, energica come non mai, mi sostenne, anzi, mi diede uno scossone. Fu così, che partimmo al contrattacco col linguaggio a noi familiare: il graffito! Graffiammo persino le strade con lo spray. I nostri pezzi urlarono la rabbia dell’ingiustizia sociale. Uniti, i writer’s, gridammo a tutta Parigi della truffa fin quando non si sentì più parlare del mercante e del suo degno compare…Aquila, te l’ho già detto, oggi parli troppo!
Con passo tranquillo, Marte ci passa d’avanti e lo ammonisce; s’avvicina alla fontana, sciacqua l’insalata; la scrolla ed entra in casa. Aquila fa una pausa; passa le mani sul volto, solleva lo sguardo al cielo, fa una pausa e mettendomi una mano sulla spalla mi dice: Vuoi mangiare con noi? Lo so che per te è inusuale pranzare alle 11; magari a quest’ora sei abituato a prendere l’aperitivo; ma, sai, noi assecondiamo l’orologio biologico in tutto e per tutto.
Butta uno scampolo di cotone dozzinale, comprato alle bancarelle del mercato rionale, e copre il tavolato a ridosso della finestra. Il bottiglione impagliato è mezzo colmo di vino e sulla cucina da campo, l’acqua in ebollizione trasborda dalla ciotola in terracotta. La ragazza mescola la pasta; ne aggancia un filo con il cucchiaio di legno. L’assaggia. Butta un pizzico di sale. Rimescola. Spegne il fornello. Serra la manetta della bombola del gas. Sgocciola gli spaghetti. Unisce un miscuglio di pomodori freschi, olive, cipolline e basilico e riempie i piatti. Aquila, mi porge un peperoncino piccante; mesce del vino nei bicchieri e: Contiene vitamina c; il peperoncino fa bene al cuore mangialo! Lo assecondo. Avvolgo la pasta attorno alla forchetta e mastico di gusto: la lingua ed il palato s’infiammano. I “cornioli” sono micidiali. Cerco di spegnere il fuoco col vino. La pasta diventa immangiabile. L’intensità eccessiva del piccante mi provoca il singhiozzo. Marte ride. Gli angoli degli occhi si contornano di piccole rughe. Cerca di trattenere il sorriso con la mano e, ora, in piena libertà, la sua dizione tradisce origini francesi. Pvrendi, mangia un pezzo di fovmaggio che ti passa! Mi dice. Metto da parte il peperoncino; avvolgo la pasta attorno alla forchetta e mastico insieme al boccone di formaggio. Le lacrime continuano a scendere. Anche il naso mi gocciola. Marte mi guarda e ride in crescendo. Tra le lacrime noto i segni del tempo sul suo viso: non è poi così piccola come sembra! Avrà senz’altro i suoi 35/40 anni! Non è bella. Ha comunque un viso dolce che denota un animo sensibile. Sai, anche a me fece quest’effetto la pvima volta che assaggiai il pepevoncino qui in Calabvia. Da noi, in Frvancia, è difficile tvovarne di così piccanti. Fovse dipende dal tevreno. Vuoi un po’ d’insalata? O pvrefevisci dell’altvro fovrmaggio? Sai, all’inizio ti avevo scambiato per uno sbivrvo. Di tanto in tanto vengono a favrci visita. Alcuni sono educati e rispettosi, altvri…rien. Fa una pausa. Riprende padronanza. Strofina le mani ai jeans. Estrae un astuccio dalle tasche capienti; lo apre. Stende una manciata di tabacco sulla cartavelina, aggiunge una caramella grigiastra. L’avvolge; la sigilla passandola sulla punta della lingua e l’accende. Aspira due, tre volte; la passa ad Aquila della notte e si accovaccia su una vecchia poltrona. Aquila, aspira; trattiene il fumo e la passa a me. L’odore intenso pizzica la gola. Tossisco. La do a Marte. La nuvola s’addensa sopra di noi ad ogni giro e il fumo ristagna nella baracca nonostante porta e finestra siano aperte: contrariamente al solito, il vento non soffia su Catanzaro. Marte e Aquila si scambiano parole in francese. Faccio fondo alle mie scarse conoscenze scolastiche ma, riesco a decifrare ben poco del loro dialogo. Il fumo rende più allegri. …Libertè! Ègalitè! Fraternitè! libertè ègalitè fraternitè... Nous allons Dai canta!…
È sera. Un’intera giornata è volata via in una situazione, per me impensabile, a contatto con una realtà sconosciuta e per certi versi assurda. Il cielo sembra più alto da quaggiù. I lampioni illuminano la trasversale del viadotto sulla Fiumarella ed ai piedi, fasci di luce evidenziano l’arcata snella del Morandi.
Ecco, basterebbero dei filtri cromatici per creare l’illusione ottica giusta. Sarebbe entusiasmante osservare tutte le notti un arcobaleno di luce che s’adagia dolcemente sui fianchi dei colli catanzaresi. Ma credo rimarrà un sogno anche per un’aquila come me…
II
Lavori di riqualificazione urbana, c’è scritto sul cartello piantato all’ingresso del cantiere.
L’intricato intreccio di rovi avviluppa il cartello ormai arrugginito e, in fondo, tra le canne, lo scheletro in cemento armato della struttura comincia a sfaldarsi. I ferri nudi sono ricoperti da uno strato di ruggine. La recinzione ancora resiste, mentre le quattro assi, che incorniciano la rete del cancello d’ingresso penzolano nel vuoto sballottati dal vento. Cumuli di rifiuti, disseminati qua e là, soffocano gli sterpi.
“lavori di riqualificazione urbana” C’è scritto.
Fino a qualche anno fa, il terrapieno era un campetto di calcio usato abbondantemente dai ragazzi del quartiere; poi, l’amministrazione programmò la costruzione di un complesso sportivo più dignitoso, con strutture d’avanguardia: piscina coperta, campi da tennis, pallavolo sauna… Ma, probabilmente la periferia non interessa, non è appetibile commercialmente, meglio destinare i fondi nei quartieri redditizi, avrà pensato qualcuno; lasciando, così l’ennesimo scheletro di un’opera pubblica incompiuta a tener compagnia all’edilizia economica popolare degli anni ottanta.
Nell’angusto balconcino del sesto piano, occupato dalla padella parabolica, la signora, s’abbassa, afferra qualcosa, si alza, flette il busto a destra, poi si appoggia al parapetto, tira a sé la corda e stende i panni. Altro che palestra! Gli edifici, uno fotocopia dell’altro, rispecchiano teorie e modelli di vita dozzinali. A nulla sono valsi i tentativi d’abbellimento operati dai condomini, negli anni. Le intemperie hanno sfaldato il colore e l’intonaco delle pareti dei contenitori in cemento armato. Il ferro arrugginito riaffiora a vanificare ogni sorta di mascheramento della geometria asciutta dell’edilizia economica e popolare.
Tra gli ulivi, che intervallano i blocchi condominiali, resiste sporadico qualche vecchio casolare campagnolo.
Le strade sono deserte.
Cammino. L’eco dei miei passi si diffonde nell’aria. Solo il canto dei passeri mi tiene compagnia. Un randagio zoppica davanti a me con la coda tra le gambe; il gatto dormicchia ai bordi del marciapiede. Strade larghe e vuote su cui si proiettano le ombre statiche dei palazzi.
Hai presente quei paesaggi sottovetro? La pace stagnante è interrotta dalla volontà di chiunque agiti la bolla di vetro. La violenza con cui viene sbattuta rimette in circolo le falde di neve finta. E, i tetti del paesaggio irreale s’imbiancano.
L’acquazzone arriva allo stesso modo! Lava l’aria e il paesaggio con violenza improvvisa. Cinque minuti sono bastati per trasformare le strade in fiumare. Il cane randagio si rifugia sotto il portico della chiesa ed il gatto si raggomitola sulla ruota di una macchina.
Dal cupo al chiaro, il grigio del cielo si apre. Raggi di sole fendono le nuvole. Il vento pulisce porzioni di cielo e spinge il maltempo da nord a sud scoprendo i monti della Sila. I tetti della città brillano sotto i riverberi del sole; anche le nuvole sono sbiancate. Ora il cielo è terso. L’arcobaleno sovrasta i colli catanzaresi e per un attimo, in controluce, il grigio traslucido del viadotto sulla Fiumarella ne è assorbito: ecco avverato il sogno di Aquila della notte!
Che strano! Ci affanniamo a progettare, sognare, anteporre ideologie, creare presupposti e poi, in un attimo, la natura ci stupisce con trasformazioni spontanee, vigorose e accattivanti, in continua evoluzione. Fantastiche nella loro cangiante e rinnovata bellezza.
Il gatto salta giù dalla ruota: uno due tre balzi e scompare nel cassonetto dell’immondizia. L’uomo ci gira attorno; valuta gli oggetti accatastati e si sofferma su alcuni pezzi d’arredamento:
È la base di un tavolo da pranzo quella che carica sul motocarro; considerando lo spessore, il piano sembra massiccio e deve essere abbastanza pesante a giudicare dalle smorfie che fa l’uomo. Ma, è Aquila: Ehi Aquila! Oh ciao; qual buon vento! Capiti proprio a proposito, dai, prendi di là, mi ci voleva una mano…
Sai ti ho pensato un attimo fa quando ho visto l’arcobaleno…Ho pensato al tuo progetto…
Ah già, il progetto…ma ora è passato, sai! Mi sono scocciato! Se dovessi andare dietro a loro e rispondere sempre coi graffi, dovrei approntare un capannone di spray per annullare tutti gli obbrobri partoriti dalle loro menti bacate, almeno questo è veramente funzionale come ponte e poi è bello nella sua plasticità avvolgente. Ho deciso di lasciarlo così. Dai, sali, se no ti bagni. Oggi và così. Avremo sole e pioggia fin quando il vento non avrà spazzato via completamente le nuvole.
Grosse gocce di pioggia si abbattono nuovamente e rimbalzano sulla lamiera del fatiscente treruote. Seguo l’invito. Mi siedo sul sedile ridotto a brandelli. A dire il vero, non c’è niente di integro: il manubrio è riciclato e il vetro del contachilometri manca. L’odore di miscela ammorba l’abitacolo angusto. Aquila s’aggiusta; strappa ripetutamente la leva laterale della messa in moto. Afferra con entrambe le mani la manopola delle marce e ingrana la prima. Sobbalzando, il furgoncino si avvia. La lancetta del contachilometri ha impennate instabili. Nuvole di pioggia ammantano nuovamente la vallata. Il motofurgone plana nelle pozzanghere melmose. S’inabissa fino all’asse; riemerge, le ruote fanno qualche giro a mezz’aria, la fanghiglia si scrolla, sbatte sui parafanghi e ricade sul terreno. Aquila fa fatica a tenere dritto il manubrio. Si sposta ai margini della strada; rallenta. Affianca il mezzo alla baracca. Uno, due salti ed è dentro. Lo seguo!
L’interno ha un non so che di nuovo. Sembra più arioso… Già! Mancano i cartelloni accatastati. Al loro posto c’è un enorme pannello graffiato di bianco. Al centro, in un vortice cromatico, un grosso chiodo fissa una striscia di carta. Il numero 50.000 rimbomba sulla superficie. Mi avvicino; l’osservo bene: Ma, è un assegno un assegno valido! Cinquantamilaeuro! Aquila impugna la pennellessa, l’immerge in un bidone grigio e la passa sopra. Interviene con lo spray. Pochi tocchi e la finzione visiva ottenuta è pregevole, altro che iper realismo è più vera dell’originale: la gigantesca striscia bancaria, sovrasta e ammanta un paesaggio urbano. Il lenzuolo da cinquantamilaeuro cala sopra le case e gli uomini, ne asseconda i volumi, li avvolge in un morbido abbraccio erotico. Aquila lascia in bianco la cifra. Appone la sua firma sul gigantesco assegno appena ultimato. Butta i pennelli in un secchio e gira il pannello con la faccia al muro. Strofina le mani ai pantaloni. Prende dalla credenza un pane di grano e mezza forma di pecorino; li affetta sul piano coperto da un tovagliolo. Tira a sé una sedia e mi indica l’altra. L’afferro: è leggera. I ferri, che la costituiscono sono assemblati con maestria, perdono i connotati grossolani delle bacchette nervate in uso nell’edilizia. La struttura agile ed elegante, se esposta in un negozio d’arredamenti è il degno prodotto del design industriale; penso; ma, qui nella baracca, sembra fuori luogo. Estranea al resto dell’arredamento raccattato da Aquila; sembra davvero una nota stonata: un vestito di alta scuola di taglio sulle bancarelle degli stracci. Comunque, la sedia è comoda!
Mi ‘ncriscivi ma sentu sempa i stessi discursi. Marte mi ha fatto la testa così e pur di non sentirla l’ho lasciata fare: ha portato un mercante e questo è il risultato: 50.000 euro! Ci pensi cinquantamilaeuro…chi mi ndajiu e fhara?…
Permesso? Ciao Renato, come sei cambiato; perché non ti radi la barba, ti metti qualcosa di decente non è da te stare così …eppure un tempo eri così accorto!
Chi ti ha chiamato? Che sei venuta a fare ah, già i soldi! Ora sono ricco! Ma, vedi, mi dispiace deluderti, io non ci tengo. Non ci tengo affatto! Se ti sei rifatta viva dopo tutti questi anni con la speranza di spillarmi soldi, beh, hai fatto la strada inutilmente. Tornatene dov’eri e lasciami in pace! Via! Esci immediatamente! Non farti più vedere! Vai viaa
A stento, Aquila, mantiene il controllo. Il mento gli trema. Non pensavo, conoscendolo, che potesse incazzarsi così. Deve operare un enorme sforzo di volontà per mantenere la voce ferma mentre intima alla donna di andarsene. Lei tenta una reazione. Balbetta qualcosa ma è bloccata. Aquila l’afferra da un braccio e la spinge perentoriamente all’uscita. Sbatte la porta. Si accascia sulla sedia e ansima di collera. Eppure, l’ho amata tanto…La porta si spalanca. Aquila ha uno scatto. Sta per alzarsi. Ah! Proprio tu, arrivi a proposito! Hai visto? Ecco le conseguenze. Sei contenta adesso? L’odore dei soldi ha risvegliato i cadaveri del passato. Era questo che cercavamo? Hai visto quali sono le conseguenze della notorietà? Sciacalli! Sono attratti solo dal benessere economico.
Scusami, non era certo questa la mia intenzione. Io, volevo solo divulgare la tua filosofia di vita, la tua arte…ma, in effetti hai ragione tu, alla gente non gliene frega nulla dell’analisi evolutiva. Pensa solo ed esclusivamente ai soldi, al benessere. Sono stata una sciocca! Scusami.
Ma come hai potuto pensare il contrario? Se il nostro modello di vita è in netto contrasto con il loro? I nostri graffi sono la risposta alla cupidigia dei poteri economici eretti sulle meschinità umane! Marte, come hai potuto pensare che un’esposizione potesse influire e modificare il malcostume alimentato dal becero linguaggio dei mezzi di comunicazione di massa? Hai dimenticato l’esperienza francese? Pare proprio di sì! Comunque basta! Non voglio più parlare di questa vicenda. Per me si chiude in questo momento ogni forma di dialogo con il mondo dei morti viventi. Quando avrò qualcosa da dire lo graffierò sui muri delle giungle pietrificate dal potere. Ma che fai ancora lì con quei pacchi in braccio? Poggiali da qualche parte e vieni a mangiare qualcosa! Su, stai tranquilla, non ti dannare l’animo, tu non hai colpa. La colpa è di quanti hanno lasciato credere che la facciata esteriore, modellabile a seconda delle opportunità economiche e della cultura individuale, sia più importante dei sentimenti ispirati dall’essenza divina che governa il mondo. Ti spieghi come mai il bambino ama i propri simili a prescindere dall’esteriorità formale? Nero o bianco è la stessa cosa. Lui, non giudica la manifattura del vestito e non fa differenza tra grasso e magro; l’aspetto esteriore, la bellezza fisica è una finzione coercitiva delle menti contaminate dai cosiddetti saperi. Mentre il bambino, fin quando non sarà smaliziato dagli stessi onanismi mentali, suggeriti, appunto, dalla stoltezza, si lascia guidare dalla spontaneità. Semplicità e affetto sono fattori predominanti in lui a prescindere da chi o cosa attrarrà la sua attenzione. In sostanza, voglio dire che la bontà attrae i buoni di cuore, gli eterni bambini; in antitesi, la bellezza esteriore, dettata da canoni effimeri, appassiona gli stolti. Ed io voglio godere del mio essere ritornato bambino! Non lottare per l’acquisizione del potere temporale ma gioire delle piccole cose…
Marte è visibilmente prostrata dagli eventi. Il rimorso per quanto è accaduto le chiude lo stomaco. Scarica la tensione su un cartone pressato. Preferisce scarabocchiare qualcosa piuttosto che unirsi a noi. Accavalla le gambe snelle, vi poggia sopra il cartone e continua a tracciare dei ghirigori nervosi con un carboncino. A nulla vale l’incessante invito di Aquila della notte. Lei, continua nella sua attività. Dopo qualche minuto, smette di disegnare. Osserva il lavoro; apporta qualche modifica. Adagia per terra il cartone e fa gocciolare sopra rigagnoli di colore. Interviene direttamente con le mani, invade la superficie con i piedi. La gonna le dà impaccio, alcuni lembi strofinano laddove non dovrebbero; decisa, l’arrotola sulla cintola incurante del colore che le cade sulle gambe nude. La sua non è una performance e neanche una danza propiziatoria: gira su se stessa; imprime il linguaggio del corpo. Dissacra. Prega. Dialoga con l’Eterno. La gonna si srotola, cade fino a toccarle le caviglie, s’attorciglia, si dispiega, lievita. Cade. I piedi mescolano i colori fino a sporcarli. Dalle contaminazioni dei gialli, rosso, blu, nascono i verdi i marroni i grigi… Esausta, abbandona lo spazio cromatico. Si allontana e orme leggere tingono le tavole del pavimento con macchie instabili. Aquila riprende il filo dei ricordi:
“È finito il tempo dei giochi; -mi disse mio padre mentre raccattava i giocattoli sparsi nella stanza- ora sei un ometto! Questi li regaliamo ai bambini poveri perché tu devi iniziare a confrontarti con la vita dei grandi. È giunto il momento dello studio!” Avevo appena sei anni. Mi dispiaceva disfarmi dei giocattoli ma mio padre mi trattava da uomo ed io non potevo deluderlo! Lo aiutai a raccoglierli, sperando in cuor mio che me li lasciasse tenere nonostante i nuovi impegni sopraggiunti; magari in cantina; ma lui non dava segnali di ripensamenti. Mi feci coraggio e gli chiesi di poter tenere un pinocchietto di legno che lui stesso mi portò da uno dei suoi tanti viaggi. Mi guardò benevolo ed acconsentì sorridendo. “Bene! Lo metteremo sulla scrivania, così ti ricorderai delle sue vicissitudini e di quanto dovette lottare per diventare un bambino vero; sappi che la sua storia può essere la storia di chiunque, ognuno, può rispecchiarsi nelle sue tribolazioni: è la metafora della vita e perciò, condensa in chiave fiabesca gli ostacoli da superare”. Lì per lì non feci caso alle sue parole: ero troppo dispiaciuto e poi, mi chiedevo, perché non li posso tenere? Posso studiare e giocare! Perché non si può espletare un lavoro, se pur impegnativo, con la stessa passione del gioco? Che male c’è a divertirsi lavorando? Invece no!, tu, vedi facce severe dietro occhiali, cravatte, doppiopetto che, con fare dottrinale, lasciano intendere sacrifici immani e, per che cosa? Solamente per darsi un tono. È tutto fumo! Non ti fidare mai delle persone troppo serie! Mi diceva. In effetti, lui non aveva questa maschera formale; era un tipo speciale, sempre allegro, disponibile. Allora perché mi privava dei giochi? Bèh, l’ho capito in seguito, quando insieme all’età variavano le attrazioni e con essa, anche, gli svaghi; i concetti di buono e cattivo mi sono stati più chiari quando ho cozzato contro la cattiveria dei gelosi, i colpi di coda e l’ignavia degli stolti che si ritenevano furbi. Questi ostacoli mi hanno forgiato ma, come vedi, c’è sempre da imparare, l’esperienza non è mai troppa, si ricade magari per eccesso di bontà, per fiducia mal riposta. In ogni modo, l’importante è capire quando mettere un punto fermo e voltare pagina, vero Marte? Dai, smettila d’angosciarti; lo so che non era tua intenzione riaprire vecchie ferite…
“Renato!” Per la prima volta sento pronunciare il tuo nome di battesimo. Non ti si addice! E poi, pronunciato da quella donna dalla postura esagerata, avvinghiata da abiti stretti; le sue labbra atteggiate a cuoricino: “Renato” diventa un rimprovero. Quasi uno schiaffo per aver ottenuto il successo senza di lei. Non ricorda di averti abbandonato. Ma, cosa importa il passato, ora è diverso: sei ricco! con una bella rasata e degli abiti nuovi puoi ritornare allo stato apparente primitivo…
Ma non dire fesserie! Non dico fesserie, lei è venuta qui col preciso intento di riappropriarsi della tua persona. Hai visto com’era agghindata?
Litigano. Litigano come ragazzini innamorati. Eppure la loro differenza d’età non lascia intendere tresche amorose. Marte è molto giovane rispetto a lui e, suppongo che Aquila delle notte abbia raggiunto la pace interiore che tutti vorremmo. Credo, piuttosto, che la gelosia di Marte nasca dall’insicurezza dettata, appunto, dall’età; dal divario generazionale che glielo fa vedere come un padre.
È smesso di piovere. Un vento energico spazza via le nuvole. Le masse grigiastre si rincorrono nel cielo; si addensano a sud, verso il mare. Tagli di sole illuminano i muri lucidi dei palazzi arroccati su via Carlo V. La lettorina arranca sulla salita prima di fermarsi alla stazione di Pratica: sembra davvero una lumaca! Certo che l’autore del pezzo graffiato sul locomotore è davvero un perspicace umorista, e poi, l’assoluta padronanza pittorica, rende la finzione visiva talmente somigliante da visualizzare un’enorme chiocciola preistorica alle prese con un mostro di metallo. È veramente simpatica! Comunica e infonde buonumore. Bella vera? Sono dovuta andare all’assalto diverse notti. Di giorno me la guardavo da qua. Osservavo bene e valutavo gl’interventi da fare con Aquila; lui, mi ha dato consigli fondamentali. Col suo aiuto ho completato il pezzo prima del previsto ed ho risparmiato qualche bomboletta. Sono davvero soddisfatta. Tu, forse non capisci quello che si prova; lo so, è difficile spiegare certe cose a chi non è in sintonia ma vedi, un tempo, quando Aquila della notte era ragazzo, c’era uno slogan molto in voga, al quale tutti i giovani credevano, e diceva così: la fantasia al potere! Poi, sono cresciuti e se ne sono dimenticati. Peccato! Spero che il tempo non cambi anche me…Guarda ora s’infila nella tana scivola sotto l’industriale, quindi piazza Matteotti, e riappare alla fermata del tribunale. …D'altronde, io sono figlia di una favola: i miei vecchi, sempre in prima linea nelle lotte di classe, parteciparono a tutte le manifestazioni. Era il tempo della beat generation; dei figli dei fiori, della contestazione alla guerra nel Vietnam, del mettete dei fiori nei vostri cannoni, cantata nei cortei e nelle aule occupate… in una di queste battaglie, durante un’occupazione studentesca fui concepita. L’evento non turbò per niente quei due ragazzi con l’èskimo anzi, quando venni al mondo, insieme al latte ingerii tensioni di democrazie rivoluzionarie: ero presente insieme a loro nei cortei, ai dibattiti…fin quando…bèh peccato!, ma lasciamo perdere ti sto annoiando! Vieni, ti faccio vedere una cosa molto più interessante!
Sul terreno, un solco incanala il movimento obbligato della porta sbilenca; le tavole inchiodate alla meglio non hanno cerniere: l’asse laterale è legato alla parete con del filo di ferro. Marte, sgancia un fermaglio. Tira l’imposta verso l’esterno; la spalanca più che può. Entra cauta. Alza una tapparella e, fatta luce, m’invita ad entrare. Solleva un vecchio telone e: Bello vero? Va be’ ancora è da ristrutturare ma tu immaginalo come nuovo: brillante con la tromba acustica che effonde i suoni letti dalla puntina nel solco dei settantotto giri. Funziona sai? Ascolta!
Marte aziona la manovella posta su un lato della cassetta in radica di noce: la molla del fonografo è carica! Mette sul piatto un disco nero e spesso; poggia il braccio del pick-up sul margine esterno del disco: la puntina, dalla consistenza di un chiodino, gratta il solco. Pochi giri e una modulazione diseguale sparge le note di un vecchio valzer. Marte segue la musica. Roteando mi coinvolge nella danza. A metà disco, il suono s’affloscia. Marte ridà la carica una, due, innumerevoli volte. È sudata. Siamo sudati. Abbiamo entrambi il fiatone. Il disco non gira più, la stanza si! Le nostre anime sono incollate. Le lingue esplorano con estrema dolcezza i pensieri rimasti sull’orlo della bocca; appesi ad un istante di romanticismo stillante, gli occhi accarezzano il volto, i capelli, le spalle… La camicia è attaccata alla pelle. I capezzoli si ergono indiscreti; spingono con forza il tessuto: sono duri, vogliosi. Li sfioro e l’attimo svanisce. Avverto l’odore del sudore, l’aria stagnante del deposito occasionale e l’umidità che viene da fuori. Anche Marte riacquista il senno. Si scosta. Ricopre il grammofono, abbassa la tapparella e chiude la porta.
A ben pensarci, è difficile razionalizzare il dato erotico; a parte quel momento d’ingrifamento che fa perdere la testa, il resto, inserito nel contesto analitico dei comportamenti personali, è un’azione da schifo se non suffragato dal sentimento. In effetti, l’intima unione dovrebbe nascere dalla voglia di comunione totale tra le anime, e non dall’accoppiamento carnale che, spesso, risulta un’azione animalesca non appagante, a dispetto dell’illusorio e insignificante attimo eiaculatorio. Se, poi, analizziamo il corpo umano, vivisezionandolo in ogni sua parte, ci accorgiamo che quanto in certi momenti comporta ebbrezza, in altri, dà sensazioni opposte; ma, ciò che fa scattare la libidine è proprio questa assenza di vigilante lucidità: la mancanza di freni inibitori spinge la mente a pascolare oltre i confini del comune senso del pudore, e, fin quando non accade qualcosa di altrettanto irrazionale da indurre all’analisi, i sensi si accendono e si spengono nell’acme del piacere. Le affinità elettive cantate dai poeti, nella realtà non compaiono o, perlomeno, ancora nessuno ha urlato amore al proprio partner dopo i primi anni di convivenza. Passata l’ebbrezza del primo momento, si urlano in faccia i difetti, le delusioni, le insofferenze; e, con tutto il livore accumulato si rinfacciano le sconfitte, si accusa l’altro d’esserne l’artefice… non si cerca più un punto d’incontro, magari, anche attraverso l’atto sessuale, no! A quel punto, il rancore rende estranei e se uno dei due insiste, rischia pure una denuncia per violenza come successe ad Aquila della notte qualche giorno prima della separazione definitiva. Eppure, sull’altare avevano promesso amore per la vita, finché morte non separi; ma queste sono formule. Di fatto, al primo ostacolo, l’unione, consacrata davanti a Dio, è andata a farsi fottere. La signora è rispuntata a raccogliere i frutti maturati dalla poetica di un linguaggio sofferto, affinato nel vissuto quotidiano a contatto con realtà a lei ignote. Ma quante storie si nascondono nell’area metropolitana? Quali sono i pensieri del vicino di casa, del coinquilino, del consanguineo? Solo Dio lo sa. Noi non possiamo fare altro che osservare. Osservare dall’esterno senza emettere verdetti. Semmai ascoltare, se qualcuno ci parla.
Il bus metropolitano è bloccato ad una delle fermate del viale Magna Graecia. All’interno, stipati come sardine, i passeggeri difendono le postazioni conquistate; altri, impossibilitati a salire dopo una snervante attesa, si accalcano alle porte, protestano, lanciano invettive contro l’amministrazione comunale. Aquila, scavalca l’intoppo: s’infila col treruote tra le palazzine dei ferrovieri e sbuca nei pressi del centro commerciale.
La collina d’argilla, alle spalle del centro commerciale, è fortemente segnata dall’acqua; innumerevoli solchi la fendono. L’andamento impetuoso della pioggia ha scavato il terreno molle, scoperto le radici degli eucaliptus e invaso l’asfalto. Le ruspe, ancora all’opera, ammassano il terriccio melmoso ai bordi del parcheggio illuminato dalle torrette. L’area, debitamente transennata, è interdetta agli estranei. Oltre il muro di cinta, le lampade a gas illuminano le bancarelle e proiettano ombre irreali nello spiazzo antistante. Qui, orientali, nordafricani, italiani, polacchi, offrono le mercanzie più disparate ai passanti, esposte negli empirici spazi commerciali allestiti ai margini del feudo.
L’aria è temperata! L’ideale per arrivare a casa a piedi, dopo una giornata d’inattività.
III
L’odore di Marte lo sento addosso, piacevole, insinuante. Non mi abbandona; e, la qual cosa, non mi dispiace affatto! Con somma sorpresa penso a lei; alla sua figura insignificante, talmente comune da passare inosservata, come d’altronde è stato fin ora… Eppure, sono trascorsi due giorni ed ho ancora addosso l’odore della sua pelle!
La lavatrice smette di scuotere la roba nel cestello: ha finito! È da stendere il bucato. Non sono il solo a sciorinare i panni oggi: i balconi sono invasi o stanno per esserlo, come accade di solito nelle giornate assolate. Pare che tutte le casalinghe stiano a scrutare il cielo e non appena è terso si precipitano a fare le grandi pulizie. La vivacità di questi frangenti, dà la sensazione di vivere una giornata estiva, non tanto per il tepore quanto per il lavorio che ferve negli appartamenti e le attività che s’intuiscono attraverso gl’infissi spalancati, i tappeti sui davanzali, il rumore delle scope elettriche e le donne discinte impegnate, appunto, nei lavori domestici.
Marte, non la immagino ridursi così; lei, è un’intellettuale! Senz’altro dedicherà quel tanto che basta alle incombenze di casa… magari, darà più peso alla crescita interiore; dedicherà la maggior parte del suo tempo ai figli e al compagno… “Compagno” mi dà un senso di fastidio pensare a qualcuno, al suo fianco; mi starò innamorando? Eppure, fino ad oggi non avevo considerato affatto questo evento. Nei miei programmi di vita non c’è l’unione stabile con un’altra persona: non credo a queste forme di mutuo soccorso; d’altronde la quotidianità è stracolma di menzogne, di cadute di stile, di tradimenti inutili e di miti infranti. Forse, è la sua diversità, l’anticonformismo col quale affronta la vita che la rende speciale; speciale fino al punto di sentirmi male al solo pensiero di non vederla. Non è servito a niente pensare ad altro e minimizzare l’accaduto. Le sensazioni riaffiorano prepotenti al pensiero di quegli attimi. All’odore del suo corpo nelle narici, a come mi abbia fatto impazzire. Mi sono violentato inutilmente se dopo due soli giorni tutto il suo essere mi perseguita! Avrei dovuto ritornare e ricominciare; riprendere dal punto in cui abbiamo troncato; sì, da quel preciso momento!… Ma niente è perduto, ci vado ora!
Il campo è tranquillo; un cane randagio che accorpa nel suo dna più razze, trotterella tra le baracche semideserte. Aquila della notte non c’è, o, perlomeno, il suo motofurgone non è parcheggiato al solito posto, quindi, desumo che sia già uscito. Busso alla porta una, due volte. Faccio il giro della baracca; sbircio dalla finestra semichiusa. Sembra deserta.
Ehi sono qui! Com’è bella! È più alta; il suo volto è radioso… No, non è più alta, è su una pietra, ma è raggiante. L’abbraccio. Lei, s’irrigidisce. Si ritrae. Mettiamo in chiaro una cosa: io non ho nessuna intenzione di aprire parentesi vincolanti nella mia vita. Quello che è stato non ti autorizza a farti film. Io sto bene così! Non ho bisogno di nessuno. L’altro giorno ero fuori di testa… e comunque, mi andava in quel momento, ma non è detto che mi vada sempre!, la forza dell’amore, preferisco incanalarla nei miei graffiti…d'altronde, non c’è stato niente!
Mi ha usato! Mi ha semplicemente usato…io o un altro, sarebbe stata la stessa cosa! Che idiota che sono!
Il meticcio annusa gli angoli. Segna il suo territorio. Trotterella, incurante. Si avvicina ad un altro cane: si annusano; scodinzolano e si perdono oltre i cespugli. Anch’io me ne vado, in silenzio, col mio carico di rabbia m’infilo in macchina. Aquila sta tornando. Lo scoppiettio particolare del motocarro anticipa la visione del singolare mezzo fuori commercio da chissà quanti anni. Mi metto di lato, sul bordo della stradina per fargli spazio. Si ferma. Come và…Se hai un attimo voglio farti vedere una cosa… Non mi andrebbe, ma per una questione di rispetto gli dico di sì. Ripercorro a marcia indietro i pochi metri fatti. Accosto alla parete di legno e spengo il motore. Aquila, mi fa cenno con la mano. Lo seguo. Vedi! È in crisi. Non è da lei fare queste cose; la conosco bene! ‘sto groviglio di colore che imprigiona la colomba e che si richiude per esplodere in quei rossi, è sintomatico: vorrebbe concedersi evasioni sentimentali ma ha paura di soffrire. D’altronde, che vuoi, ha quasi quarant’anni e non vorrebbe sbagliare. Osservo il pezzo e vedo una scia di colore trasformarsi in un cuore. Un cuore talmente gonfio che a momenti scoppia per il troppo amore costipato; che viene immediatamente imprigionato da un filo spinato. Le dobbiamo stare vicini. Vieni, vieni; andiamo a trovarla senz’altro starà dipingendo nella baracca. Sì, Aquila ha ragione, lei è lì, davanti ad un’enorme tavola su cui le campiture di colore s’inseguono; i segni grafici esplodono, s’infittiscono in un continuo susseguirsi d’implosione ed esplosione cromatica. Proietta, magistralmente, grovigli pirotecnici, schizzi sublimi in perenne movimento. C’è tensione emotiva nel pezzo. Marte afferra una bomboletta: vaporizza; crea trasparenze e pone in primo piano un nastro ellittico la cui metà suggerisce una chiusura interna che invita, comunque, a guardare oltre, verso la parte centrale del dipinto. Lo sguardo, non fa fatica ad abbracciare la composizione scaturita dalla sensibilità creativa; penetra, sonda, ispeziona e dialoga con l’autrice nell’immediatezza. Sono annichilito di fronte a tanta forte bellezza. Tossisco. Il colore nebulizzato pizzica la gola. L’aria, all’interno, è irrespirabile; ma non so se il malore è da imputare al gas delle bombolette. Mi precipito fuori. Respiro avidamente. Boccheggio, mentre cerco di contenere i conati di vomito che accompagnano l’estromissione dell’aria. La testa mi gira. Aquila mi sostiene da un braccio. Marte mi guarda con apprensione; rientra in casa ed esce con un bricco di latte. Aquila me lo avvicina alla bocca. Non riesco a berlo. Mi siedo su un tronco e respiro lentamente. Piano piano la sensazione di spossatezza scompare; riacquisto i ritmi biologici ma rimane la secchezza delle fauci. Bevo il latte. Marte mi passa un fazzoletto bagnato sulla nuca. Ha dei bei fianchi! (Ce l’ho ad altezza occhi). Alzo la testa, seguo la linea sinuosa del suo corpo: la bretella della salopette è calata; il seno turgido modella prepotente il cotone leggero della t-short e sulle spalle toniche, il collo snello leggermente flesso, sorregge la testolina fiera imbracata nella bandana.
Un’ombra apprensiva turba il suo volto bruno; la maschera critica lo copre, invano, d’impassibilità: non vuole esternare l’invocazione d’affetto che trasborda dagli occhi. Non indossa orecchini; ha solo un laccettino e una placchetta d’oro adagiata sul petto con su scritto “Annalisa”.
I cani randagi trotterellano seguiti da alcuni bambini tra le baracche rese vive dai loro rumori e dalle grida di una mamma che invoca il figlio a farle un servigio.
Aquila, constatata la mia ripresa, va a scaricare dei frammenti di pannelli pubblicitari dal cassonetto del furgoncino. Le stratificazioni cartacee, sovrapposte sulle vecchie tavole di masonite, generano atmosfere visive che inducono a formulare assonanze linguistiche col vissuto quotidiano anche remoto.
Vedete, Mimmo Rotella ha avuto un’ottima illuminazione: ha sovvertito le potenzialità di dialogo del prodotto effimero pubblicitario in linguaggio artistico, rendendolo perciò duraturo. Ha saputo creare le giuste atmosfere per indurre le menti a scavare, lacerare idealmente; strappare un lembo, scoprire e ricoprire così da rievocare un momento particolare legato, appunto, a quel dato episodio sopito ma, ridestato dai caratteri del manifesto. Qui, in queste tavole, si vede chiaramente il passaggio del tempo, la storia dei costumi, i modi di pensare, le manipolazioni strutturali ambientali e mentali subite negli anni dai consumatori. Ve la ricordate? Eternit: per l’eternità! E dopo aver inondato l’ambiente di questo prodotto, studi recenti, ci dicono ch’è cancerogeno! Ora costa molto disfarsene e la gente lo butta dove capita…Quanti danni genera l’avidità umana e l’opportunismo dei singoli! ... Come se si vivesse in eterno…A proposito dell’eternità, Marte, ricordati che non sei più una ragazzina, perciò, vedi di cogliere l’attimo e mangia quando hai fame! Reagisci! Concludi! Prendi una decisione; una qualunque; l’importante che non generi rimpianti e struggimenti ma ti faccia superare l’incertezza con cui hai vissuto questi giorni. Comunque, se vuoi sapere la mia opinione: è da sciocchi perdere il tempo così; perché, poi? Te lo sei chiesto? Ama! Ama senza timore non c’è cosa più bella al mondo…e questo vale per tutti: amatevi ragazzi.
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