Ambiguità lessicali, contaminazioni e devianze concettuali retoriche della parola nel campo dei linguaggi non verbali.
Gli idiomi, nel consentire il dialogo tra soggetti differenti e affrancare l’esposizione del pensiero, nel permettere di confrontare percorsi di vita, esperienze, studi, ricerche e tutto ciò che la mente umana riesce a elaborare in chiave astratta, consentono la libertà ai grandi oratori di incanalare i concetti verso false verità o ideali.
Il duello tra tesi e antitesi è combattuto laddove gravitano interessi economici, d’immagine politica, culturale e religiosa. Ma la duttilità dei vocaboli, a volte lascia qualche margine interpretativo; la trasformazione fonetica o l’atonia consente aperture, analisi, proposte, provocazioni che l’interlocutore raccoglie e sviluppa, le fa proprie automaticamente e le rimette in discussione.
Scrittura e ars oratoria ampliano concetti, spiegano, modellano e pilotano il grande pubblico specie se suffragate da gadget mentali cari alle masse. Le masse incolte sono facili prede per i fabulatori ruffiani che lasciano intravedere il paradiso artificiale o terrestre voluto da quanti educati dagli spot pubblicitari. I maestri della parola innalzano, enfatizzano, minimizzano o annullano, a seconda dei casi, i fatti della vita come la morale, le leggi, i comportamenti e persino i linguaggi colti dell’arte.
Ma, davanti ai linguaggi alti dell’anima la sospensione del pensiero verbale è d’obbligo allorché si è alle prese col gioco creativo degli eterni bambini. Qui lo spazio mentale assume connotati differenti; non esiste la rigidità, il diniego imposto da ferree discipline di pensiero scolastico.
Gli eterni bambini giocano, inventano, ripensano luoghi e fatti; ripropongono ogni azione, cosa, colore, gesto secondo un fluire interiore unico che non lascia spazi ad ambiguità oratorie perché i linguaggi artistici, quando surrogati da parole, cessano di esistere, la loro unicità è contaminata da fonemi che non riusciranno mai a formulare le frequenze giuste giacché quelle sono già state usate dall’artista nell’atto giocoso della creazione. Eppure, molti, condizionati dalla formazione culturale, cadono nell’errore. Vogliano razionalizzare e concettualizzare un gioco mentale insondabile dal punto di vista concettuale e umanamente artistico.
Antonello Trombadori, stimato intellettuale e critico d’arte, quando, durante un nostro incontro degli anni ottanta, accennai a un chiarimento verbale davanti a un mio lavoro m’interruppe immediatamente e in tono perentorio affermò: tu pensa a dipingere che a inventare parole, suggerire poetiche e nella peggiore delle ipotesi dire cazzate bastiamo noi critici dell’arte: siamo pagati per questo. Concluse con un sorriso.
Come può un estraneo, se pur coltissimo, “spiegare uno stato d’animo altro” una condizione pro positivamente ludica concepita da un microcosmo sconosciuto? Sensazioni, pensieri e cultura non possono essere mai identici. Può, semmai, tracciare un’analisi sulla falsa riga dei movimenti artistici e degli artisti conosciuti, raffrontare la costruzione, il lirismo… ma mai penetrare la verità. Quella deve venir fuori dal muto dialogo tra opera e fruitore! Dissi risentito.
Oggi, gli do ragione; adesso comprendo il significato sottile delle sue parole, ma allora mi sembrarono blasfeme.