Da qualche tempo mi torna in mente
Garibaldi.
Non quello della storia d'Italia ma un
ragazzo qualunque. Un vecchio compagno di oratorio che per il suo
colore di capelli si era guadagnato il nomignolo di “garibaldi”.
Franco, questo il suo vero nome, era un
ragazzo che, date le sue umili origini, doveva darsi da fare e per
aiutare la famiglia faceva il garzone in una bottega che forniva
bombole di gas.
Magro. Sempre sorridente e allegro.
Garibaldi stava allo scherzo. E nonostante il lavoro gravoso, forse
non aveva il padre, lo vedevo accudire alla mamma, una donna minuto e
un pochino deforme, trovava il tempo per scrivere.
Scrisse una commedia. E ci mise dentro
il suo mondo. I suoi sogni e la realtà. I suoi affetti. I suoi amici
e conoscenti. E la presentò nel teatrino dell'oratorio.
Era domenica pomeriggio. Una domenica
d'inverno. La presentazione del parroco, benevola, predispose la
platea alla visione ma con qualche riserva.
La remora era dovuta alle umili origini
di Franco e al fatto che non si sapeva nulla della sua
predisposizione alla scrittura
che avesse un animo sensibile si
sapeva ma non si conosceva la sua poetica ben trascritta e
rappresentata nonostante le sue perenni assenze dalla scuola: o
lavorava o frequentava le lezioni.
Dopo la rappresentazione, sottolineata
dai continui applausi di commossa approvazione, Garibaldi, agli occhi
dei più non era lo stesso ragazzo, lo stesso semplice garzone di
bottega che portava la bombola del gas a casa. Era Francesco!